Articolo apparso su marcotosatti.com, 14 febbraio 2024.
- a cura di Gaetano Masciullo.
Dopo lo studio pubblicato sul blog di Aldo M. Valli dal titolo “La difficoltà di giudicare Francesco” [1] e quello sul blog di Marco Tosatti dal titolo “Benedetto, Sede Impedita? Riflessioni su Due Casi Storici” [2], oggi vorrei analizzare un altro argomento portato spesso a sostegno della tesi secondo cui, acclarato per alcuni che Benedetto XVI non sarebbe mai stato abdicatario ma solo rinunciatario del ministerium e non già del munus, e che Francesco di conseguenza sarebbe antipapa e usurpatore del Trono Petrino, chiunque, laico o sacerdote, avrebbe non solo il diritto ma finanche il dovere – si dice – di proclamare che Francesco non è il papa e che – niente di meno – le Messe celebrate una cum Francisco sarebbero “invalide”. A sostegno di ciò, si addurrebbe come prova quanto riferisce la costituzione apostolica Universi Dominici Gregis (da ora innanzi: UDG), una legge speciale del diritto canonico promulgata da papa Giovanni Paolo II nel 1996, circa la gestione della Sede apostolica durante la vacanza nonché dell’elezione del Sommo Pontefice, più precisamente al punto 76, laddove si legge: “Se l’elezione fosse avvenuta altrimenti da come è prescritto nella presente Costituzione o non fossero state osservate le condizioni qui stabilite, l’elezione è per ciò stesso nulla e invalida, senza che intervenga alcuna dichiarazione in proposito e, quindi, essa non conferisce alcun diritto alla persona eletta”. Vieppiù, il punto 77 aggiunge: “Stabilisco che le disposizioni concernenti tutto ciò che precede l’elezione del Romano Pontefice e lo svolgimento della medesima, debbano essere osservate integralmente, anche se la vacanza della Sede Apostolica dovesse avvenire per rinuncia del Sommo Pontefice, a norma del can. 332 § 2 del Codice di Diritto Canonico”.
Ora il punto di nostro interesse è laddove si legge che non sarebbe necessaria “alcuna dichiarazione in proposito”. Dunque, – dicono i sostenitori della tesi finora ricordata – una volta compreso che Francesco fosse papa illegittimo, non sarebbe necessario aspettare che la Chiesa lo proclami tale. Ritengo però che questa interpretazione della legge speciale UDG sia fallace, con tutto il rispetto umanamente e cristianamente dovuto per i suoi propugnatori. Si badi bene: ritengo che, in generale, sia corretto dire che non bisogna aspettare una dichiarazione della Chiesa circa l’antipapato – vero o presunto – di Francesco, ma certamente non nel senso “democratico” inteso da alcuni, secondo cui chiunque, laico o sacerdote, avrebbe potuto e dovuto dichiarare “sede impedita”, come si pretende, o sede vacante oggi, dal momento che Benedetto XVI è trapassato. Ma andiamo con ordine.
Vediamo anzitutto quale siano il contesto e la finalità della legge speciale UDG; in secondo luogo, in che senso sia corretto dire che la “dichiarazione in proposito” non spetti alle autorità romane della Chiesa docente; in terzo luogo, se sia corretto affermare che celebrare o partecipare a Messe una cum Francisco – acclarato che questi sia antipapa – sia o no peccato grave.
Partiamo con il primo punto. Una legge speciale è detta tale in quanto disciplina e si rivolge a destinatari particolari, ovvero concerne materie particolari bisognose di una regolamentazione di dettaglio. Al contrario della legge generale (che nel nostro caso è il Codice di diritto canonico), che disciplina e si rivolge a tutto l’orbe cattolico e che regolamenta la vita generale della Chiesa.
Quali sono dunque i destinatari particolari della UDG? Evidentemente coloro che si occupano di gestire la Chiesa durante la vacanza della Sede e coloro che si occupano di gestire l’elezione del Pontefice, quindi le figure chiave della Curia romana e il Collegio dei cardinali. Non vi sono altri destinatari all’infuori di questi. Lo stesso papa Giovanni Paolo II lo afferma nel testo: “Indiscusso, in verità, appare il principio per cui ai Romani Pontefici compete di definire, adattandolo ai cambiamenti dei tempi, il modo in cui deve avvenire la designazione della persona chiamata ad assumere la successione di Pietro nella Sede Romana. Ciò riguarda soprattutto l’assemblea di persone [id ante omnia personarum coetum respicit] cui è demandato l’ufficio di provvedere alla elezione del Romano Pontefice: […] esso è costituito dal Collegio dei Cardinali di Santa Romana Chiesa” (Introduzione).
Per di più, se si esamina il corpus normativo della legge in discorso, si vedrà che essa è indirizzata esclusivamente a loro, com’è logico d’altronde che sia, visto che la suddetta legge regolamenta nel dettaglio i poteri del collegio cardinalizio, le modalità di elezione del Romano Pontefice, ivi inclusa l’osservanza del segreto su tutto ciò che attiene all’elezione.
Questa precisazione diviene ancora più stringente se consideriamo, appunto, che la seconda parte della UDG, all’interno della quale troviamo l’espressione in proposito, è rivolta esclusivamente ai cardinali elettori, dal momento che – tra gli elementi di novità – la UDG ha sancito che “[i]l diritto di eleggere il Romano Pontefice spetta unicamente ai Cardinali di Santa Romana Chiesa” (II. 1 § 33) e ha abolito ogni altra forma di elezione che non sia quella per scrutinium, ivi incluse l’elezione per acclamationem e per compromissum dei cardinali (II. 5 § 62).
Questo è importante ribadirlo perché, quando si giunge a leggere il punto 76, bisogna continuare ad avere presente che il legislatore continua a disciplinare i soli cardinali elettori e rivolgersi a essi solo, non a tutti i cattolici. In altre parole, il punto 76 della UDG di fatto sta dicendo: “Signori cardinali elettori, se, durante il conclave, vi accorgete che l’elezione non è andata secondo quanto stabilito finora nella UDG, potete e anzi dovete passare direttamente a ripetere tutta la procedura del conclave, così come io ho stabilito: non è necessario che vi affacciate dal loggione di san Pietro a scusarvi con i fedeli che hanno visto la fumata bianca e ora aspettano il papa, e che dichiariate che c’è stato un errore, per il motivo molto semplice che il popolo dei fedeli non ha il diritto né il potere di accettare o respingere la vostra dichiarazione”.
Non significa affatto che il popolo di Dio possa valutare da sé se l’elezione è andata secondo le istruzioni dell’UDG, non foss’altro perché nessuno – a parte i cardinali elettori – può partecipare al conclave (segretezza che rende ancora più evidente, in realtà, la specialità della destinazione della legge, e di questo punto in particolare). Dunque: i destinatari sono i cardinali elettori; la circostanza di luogo e di tempo è il conclave. Se siamo al di là di queste condizioni, siamo al di là della UDG, e dobbiamo rivolgerci alla legge generale o eventualmente ad altre leggi speciali che disciplinano circostanze differenti. Ciò diviene maggiormente evidente se consideriamo che, nel diritto canonico, l’invalidità (o nullità) è una sanzione che richiede un’interpretazione stretta della legge in questione, cioè che consideri l’osservanza delle sole condizioni indicate espressamente dalla legge, senza permettere che il tutto si estenda al di là di essa per casi analoghi o similari.
Per meglio chiarirsi. Il lettore ricorderà quanto scriveva Antonio Socci nel suo libro Non è Francesco (Mondadori, 2015). Secondo il giornalista, durante il conclave che elesse Francesco, un cardinale avrebbe inserito (con ogni probabilità – possiamo dirlo col senno di poi – volontariamente) nell’urna due schede anziché una sola, con l’intento (evidente per chi abbia un po’ di dimestichezza con i giochi che avvengono negli organi elettivi) di far cadere la candidatura, durante la quarta votazione del giorno 13 marzo (ovvero la quinta da quanto era iniziato il conclave), del cardinale arcivescovo di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio. Lo scopo sarebbe stato quello di giungere all’indomani, in quanto, a norma dell’UDG, potevano svolgersi al massimo quattro votazioni al giorno (due al mattino e due al pomeriggio: cfr. punto 63 dell’UDG). Infatti, il porporato che aveva inserito la scheda forse sperava che, nel corso della notte, si rimescolassero le carte delle candidature. Più che speranza, possiamo dire, sempre col senno di poi, solo una pia illusione, poiché forse si ignorava che vi era una forte volontà di procedere in tempi ristretti ed a tamburo battente all’elezione del successore di papa Benedetto sul seggio petrino, e che questo successore fosse il cardinal Bergoglio.
Stando, dunque, alla ricostruzione del giornalista Socci, il quale si fondava su quanto riferito dalla giornalista argentina Elisabetta Piqué, corrispondente dal Vaticano per il quotidiano La Nación, e biografa di Francesco, che, nel libro Francisco, vida y revolución (editorial El Ateneo), pubblicato in Italia per i tipi della Lindau con il titolo Francesco: vita e rivoluzione, rivelava – su confidenza ricevuta dallo stesso Francesco – che questa scheda in più rispetto ai votanti, benché fosse acclarata in sede di scrutinio, portò sì all’invalidazione di quella votazione senza neppure che fossero scrutinati i voti (violando, stando alla ricostruzione di Socci il n. 69 della UDG, secondo cui: «[…] Qualora nello spoglio dei voti gli Scrutatori trovassero due schede piegate in modo da sembrare compilate da un solo elettore, se esse portano lo stesso nome vanno conteggiate per un solo voto, se invece portano due nomi diversi, nessuno dei due voti sarà valido; tuttavia, in nessuno dei due casi viene annullata la votazione»), ma i cardinali – o meglio: il cardinal Camerlengo ed i cardinali assistenti – anziché rinviare all’indomani per la nuova votazione – come prevede sempre l’UDG – decisero di procedere comunque, quella stessa sera del fatidico 13 marzo, ad una quinta votazione del giorno (la sesta da quando era iniziata il conclave) da cui risultò eletto il cardinal Bergoglio. D’altronde, nessun cardinale elettore – secondo quando constava a Socci – obiettò alcunché, nonostante l’apparente irregolarità della votazione, consistente nella quinta votazione del giorno, visto che l’UDG espressamente stabilisce che le votazioni fossero quattro al giorno, e non cinque. Possiamo presumere che, nell’intenzione dei cardinali, la quinta votazione fu fatta perché la quarta fu considerata nulla de facto (sebbene, a norma della Costituzione UDG, non potesse essere considerata nulla de facto né de iure).
Cosa fare dunque, a conclave avvenuto? Non ci si può più appellare all’UDG, per le ragioni finora enunziate. Neanche per sanare l’errore giuridico della scheda superflua, commesso durante il conclave, anche perché, come abbiamo ricostruito, nelle intenzioni dei cardinali l’errore potrebbe essere stato sanato nell’occasione. Ormai il conclave è terminato, e con esso la circostanza entro cui la legge speciale si applica. Per rispondere a questa domanda, dobbiamo rivolgerci dunque alla legge generale, e la legge generale (sarebbe a dire, lo ribadiamo, il Codice di diritto canonico) spiega al can. 154: “L’ufficio vacante di diritto [N.B. non di fatto, ma di diritto], che sia eventualmente ancora posseduto da qualcuno illegittimamente, può essere conferito, purché sia stata dichiarata nel debito modo l’illegittimità del possesso”. Dunque, usciti fuori dalle condizioni stabilite dalla UDG, diviene necessaria la sententia Ecclesiae, la dichiarazione della Chiesa.
Veniamo al secondo punto. Ho detto all’inizio che io ritengo che, in generale, sia corretto dire che non bisogna aspettare una dichiarazione della Chiesa docente circa il presunto antipapato di Francesco, ma certamente non nel senso “democratico” inteso da alcuni, e non certamente in virtù di UDG II. 5 § 76, come abbiamo visto. Intendo dire che il giudizio, come sempre quando si tratta di antipapi, spetta solo ai canonisti e agli storici della Chiesa, e tale giudizio solo in seguito viene fatto proprio, cioè ratificato, dalla Chiesa docente nella figura del Papa o di suoi delegati, e non necessariamente in maniera solenne, come potrebbe avvenire appunto con l’espunzione dei sedenti illegittimi dall’Annuario Pontificio.
A sostegno del fatto che queste vicende non devono essere governate in senso democratico, sta anche il fatto che, tradizionalmente, dal punto di vista canonistico, l’ufficio del papa è stato spesso paragonato al sacramento del matrimonio. Come il marito sposa la propria moglie dinanzi a Dio, così il papa, in qualità di vicario di Cristo, in un certo senso sposa la Chiesa dinanzi a Dio. Ora certamente, nel caso del matrimonio, possono darsi circostanze che rendono nullo lo stesso matrimonio. Attenzione: nullo, invalido, de iure mai avvenuto, sebbene come fatto storico ed esperienziale possa dirsi avvenuto, non foss’altro perché impresso su foto, nei ricordi, ecc.
Nel dicembre 2018, il teologo e latinista americano Ryan Grant scriveva su una nota testata cattolica americana: “Possiamo fare un’analogia del genere. La conseguenza di un individuo laico che ‘dichiara definitivamente’, per propria autorità, che le dimissioni di Benedetto sono state invalide non è affatto diversa da [quella di] un uomo che scopre che il suo matrimonio sia invalido a causa di qualche impedimento. Anche se avesse ragione al cento per cento e questo impedimento fosse evidente come il sole d’estate, egli non potrebbe semplicemente scappare e sposare un’altra donna, fintanto che la Chiesa non gli abbia concesso una dichiarazione di nullità, che è una sentenza nel foro esterno. In altre parole, poiché il sacramento del matrimonio è un atto pubblico, non dissimile dall’assunzione o dal rifiuto dell’ufficio papale, eventuali difetti che influenzano la validità devono essere giudicati pubblicamente dalla Chiesa attraverso il processo di annullamento, in modo che venga emessa una sentenza definitiva, e coloro che sono gli interessati abbiano certezza morale sulla questione” [3].
Quest’osservazione è puntuale e ineccepibile.
Terzo punto. Se sia corretto affermare che celebrare o partecipare a Messe una cum Francisco – acclarato che questi sia ipoteticamente antipapa – sia peccato grave. Qui sono due cose che vanno precisate, onde evitare che il popolo di Dio, soprattutto quello più sprovveduto di conoscenze teologiche, anche se in buona fede, tragga conclusioni grossolane e imprudenti (attenzione: l’ignoranza quasi mai è sintomo di umiltà, e in questi giorni le ondate di insulti lanciati a oltranza dai “fan” dell’una e dell’altra parte del dibattito lo dimostrano ampiamente): cioè in primo luogo occorre distinguere cosa siano l’invalidità e l’illiceità, e se si differenzino sostanzialmente; in secondo luogo, se il problema riguarda l’una o l’altra. Ora una Messa, ma in generale un sacramento cattolico, è invalido se non viene celebrato rispettando la materia, la forma, l’intenzione della Chiesa ed il ministro. Per esempio, il battesimo è invalido o nullo se non viene utilizzata l’acqua – che è sua materia propria – e se non viene usata la formula conveniente: “Io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”, e se non c’è la retta intenzione di unirsi misticamente al Corpo di Cristo che è la Chiesa e di rimuovere il peccato originale quanto alla colpa.
Nel caso della Messa (che è la celebrazione del massimo sacramento, ossia l’Eucarestia), le condizioni della validità sono l’uso del pane e del vino (materia), l’uso delle formule consacratorie approvate (forma), e l’esistenza di un ministro validamente ordinato. Da notare bene, a proposito della formula che rende valida la Messa: san Tommaso d’Aquino insegna che solo le frasi “Questo è il mio corpo” e “Questo è il mio sangue” rendono valida la transustanziazione. Le altre parole, che pure il sacerdote proferisce durante la consacrazione, come per es.: “Prendete e mangiate”, scrive san Tommaso, «non appartengono all’essenza della forma» [4]. Figurarsi tutto il resto che fa da corollario, nella liturgia, al cuore pulsante del sacramento!
Aggiunge san Tommaso che il sacerdote non perde mai il potere della transustanziazione, non solo se è un uomo peccatore, ma neanche se diventa eretico, scismatico oppure se viene scomunicato: «poiché la consacrazione dell’Eucaristia è un atto che consegue al potere dell’ordine, quelli che sono separati dalla Chiesa per l’eresia o lo scisma o la scomunica, possono certo consacrare l’Eucaristia, che, consacrata da loro, contiene realmente il corpo e il sangue di Cristo; essi, però, non fanno ciò in modo giusto, ma peccano facendolo» [5].
Quindi le messe degli eretici e degli scismatici sono certamente valide, perché si verifica la transustanziazione, ma non sono lecite, perché non sono autorizzate dalla Chiesa, secondo il potere di giurisdizione. Ecco, dunque, che c’è differenza tra Messa invalida e Messa illecita. Per fare un esempio, le celebrazioni liturgiche celebrate dai cosiddetti “ortodossi”, cioè dai sacerdoti delle Chiese autocefale d’Oriente (considerati almeno sino ai tempi del papa Paolo VI come scomunicati), che non siano pienamente unite alla Catholica, sono perfettamente valide (pur non essendo in comunione con nessun papa romano da almeno mille anni), eppure non sono lecite, con la conseguenza che un cattolico non potrebbe parteciparvi se non commettendo il delitto di communicatio in sacris (can. 1381). [6]
La liceità della liturgia dipende dal mandato effettivo che il celebrante ha ricevuto dal vescovo, unito al Pontefice. Ora, se Francesco fosse davvero un antipapa, le Messe dette in unione con lui sono certamente valide (il pane e il vino si convertono nel Corpo, Sangue, Anima e Divinità di Nostro Signore Gesù Cristo), e i fedeli ottemperano al precetto festivo, soprattutto se si considera che la grande maggioranza dei cattolici di tutto il mondo considera Francesco come papa legittimo e non sospetta neanche lontanamente tutto l’Affaire Ratzinger-Bergoglio, che agli occhi dei più potrebbe apparire solo come una cavillosa questione giuridica (anche se sappiamo non essere tale).
Come scrive san Tommaso d’Aquino, «gli eretici, gli scismatici e gli scomunicati sono stati privati dell’esercizio di consacrare da una sentenza della Chiesa», ma «non tutti i peccatori sono stati privati dell’esercizio di questo potere con una sentenza della Chiesa. E così, benché siano sospesi per quanto dipende dalla sentenza divina, tuttavia non [lo sono] rispetto agli altri da una sentenza della Chiesa. Quindi, fino a sentenza della Chiesa, è lecito ricevere da costoro la comunione e ascoltarne la Messa»; e ancora: «[la Scrittura] non [vuole] che un uomo [sia] giudicato da un altro sulla base di un sospetto arbitrario oppure con un giudizio usurpato al di là della norma, ma piuttosto in base alla legge di Dio, secondo l’ordine della Chiesa, sia che, poi, abbia confessato o che, citato [in giudizio], sia risultato colpevole» [7]. Nel caso di Messe cattoliche in unione con un antipapa non ancora riconosciuto come tale dalla Chiesa, quale sarebbe il caso certamente di Francesco, riconosciuto legittimo pacificamente dalla maggioranza dell’orbe cattolico, siamo di fronte a Messe non solo valide, ma persino lecite, non essendoci stata alcuna sentenza della Chiesa, proveniente cioè non da questo o quel dottore privato o improvvisato, che, per un verso, abbia dichiarato Francesco o altri eretici pertinaci o, per altro verso, abbia dichiarato Francesco quale antipapa.
Per quanto riguarda la liceità della Messa, essa potrebbe essere definita anche come “validità dal punto di vista della potestà di giurisdizione”, mentre la validità propriamente detta proviene dalla potestà d’Ordine. Ciò inteso, possiamo comprendere il caso della citazione fatta, evidentemente a sproposito, dell’enciclica di Giovanni Paolo II Ecclesia de Eucaristia, dove si legge: «Ogni valida celebrazione dell’Eucaristia esprime questa universale comunione con Pietro e con l’intera Chiesa, oppure oggettivamente la richiama, come nel caso delle Chiese cristiane separate da Roma» (n. 39, cit. da Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 1). Qui non si sta implicando che le Messe celebrate in comunione con un antipapa – a maggior ragione se occulto e non dichiarato da alcuna legittima autorità della Chiesa – siano invalide nel senso della potestà d’Ordine, bensì che, almeno secondo l’ecclesiologia del Concilio Vaticano II, ogni divina liturgia celebrata validamente “richiama oggettivamente” la comunione con Pietro, e ciò vale anche per le chiese scismatiche, che tuttavia conservano un Ordine sacro autentico, cioè che discende dagli apostoli in continuità (praticamente si fa riferimento alle chiese scismatiche orientali). Nelle divine liturgie celebrate da sacerdoti in comunione con il Patriarcato di Mosca, per esempio, certo non si nomina papa Francesco, così come non si nominavano in passato papa Benedetto XVI o papa Pio XII, eppure quelle Messe sono valide, e in virtù di tale validità, richiamerebbero “oggettivamente” – secondo Giovanni Paolo II – l’universale comunione con Pietro e con l’intera Chiesa.
Possiamo concludere con un appunto. A rigore commettono peccato grave proprio coloro che partecipassero alle celebrazioni oppure ricevessero i sacramenti da parte di quei ministri (sacerdoti o vescovi), che fossero stati condannati e scomunicati dai vescovi una cum o persino da Francesco, e ciò in quanto – come detto – non c’è alcuna sentenza proveniente da una legittima autorità della Chiesa, che dichiari l’antipapato – vero o presunto – di Francesco, o che abbia riabilitato quei ministri dalle censure. Sino a che non vi fosse una sentenza di una legittima autorità della Chiesa circa lo status di Francesco, o che riabiliti ovvero dichiari invalida qualsiasi condanna nei confronti di quei ministri scomunicati, varranno pur sempre le censure canoniche da essi ricevute. E nessuno può sostituire o anteporre il proprio giudizio – quale privato dottore – a quello della Chiesa o di una legittima autorità della Chiesa, se non a prezzo di un altro peccato che è l’usurpazione di giudizio. Sempre citando san Tommaso d’Aquino, bisogna ribadire che ogni giudizio, quando usurpato, diviene perverso, cioè corrotto e falso, ed è peccato grave contro la virtù della giustizia:
«Chi formula un giudizio interpreta in un certo qual modo il dettato della legge, applicandolo a un caso particolare. Ora, poiché appartiene alla stessa autorità fare la legge e interpretarla, come la legge non può essere fatta se non dall’autorità pubblica, così neppure il giudizio può essere dato se non dall’autorità pubblica, che si estende certamente a quelli che sono soggetti alla comunità. E così, come sarebbe ingiusto che uno costringesse un altro a osservare una legge, che non fosse stata sancita dall’autorità pubblica, così è anche ingiusto che uno costringa un altro a subire un giudizio, che non sia formulato dall’autorità pubblica». [8] E si badi bene che la Chiesa, analogamente alla potestà civile, anzi come suo exemplar divino, rientra in quelle che possono essere definite “autorità pubbliche”.
[1] https://www.aldomariavalli.it/2024/01/08/la-difficolta-di-giudicare-francesco-unesplorazione-teologica-e-canonica/
[2] https://www.marcotosatti.com/2024/01/19/benedetto-sede-impedita-riflessioni-su-due-casi-storici-gaetano-masciulo/
[3] https://onepeterfive.com/benevacantists/
[4] Tommaso d’Aquino, Summa theologiae III, q. 78, a. 1.
[5] Ivi, q. 82, a. 7, co.
[6] Ad onor del vero, la Chiesa cattolica ha sempre ammesso delle eccezioni a questa regola. Ad es., nella costituzione di Martino V Ad evitanda scandala (1418), si autorizzava la comunione sacramentale con gli scomunicati, purché non fossero stati personalmente e pubblicamente condannati come tali, né fossero noti aggressori di un sacerdote. L’attuale legge generale stabilisce al can. 844 § 2 che: «Ogniqualvolta una necessità lo esiga o una vera utilità spirituale lo consigli e purché sia evitato il pericolo di errore o di indifferentismo, è lecito ai fedeli, ai quali sia fisicamente o moralmente impossibile accedere al ministro cattolico, ricevere i sacramenti della penitenza, dell’Eucaristia e dell’unzione degli infermi da ministri non cattolici, nella cui Chiesa sono validi i predetti sacramenti».
[7] Tommaso d’Aquino, op. cit., q. 82, a. 7, co.
[8] Tommaso d’Aquino, op. cit., II-II, q. 60, a. 6, co.
Spero che il mio commento possa essere pubblicato. Grazie.
L’atto nullo è inidoneo, proprio per la sua nullità, a produrre in alcun modo gli effetti ai quali è orientato.
L’atto è nullo:
1) quando esiste una specifica comminatoria di nullità contenuta in una norma (c.d. nullità testuale) art. 76 UDG;
2) quando manca uno degli elementi essenziali dell’atto;
3) quando è contrario a norme imperative.
Caratteristiche intrinseche della nullità:
1) è imprescrittibile; l’atto nullo, in quanto tam quam non esset, non è soggetto a prescrizione e la nullità può essere fatta valere in ogni tempo;
2) è insanabile; l’atto nullo non può essere convalidato o ratificato da nessuno (nemmeno il trascorrere del tempo può sanarlo come visto al punto 1)
3) l’azione di nullità è di mero accertamento e non ha natura costitutiva, limitandosi ad accertare che l’atto è nullo;
4) può essere fatta valere da chiunque; la nullità opera ex se e quindi l’atto nullo è tale erga omnes;
5) in caso di pendenza di giudizio, può essere rilevata d’ufficio dal giudice al contrario di quanto accade per l’annullabilità: anche se non richiesto il giudice può accertare la nullità dell’atto proprio perché tale facoltà è rimessa al Pubblico Ufficiale a beneficio della certezza del diritto.
La nullità non deve essere dichiarata da nessuno. Occorre solo prenderne atto (accertamento) ed eventualmente emettere i provvedimenti necessari per ristabilire la legalità.
La nullità non è sottoposta alla condizione sospensiva della dichiarazione (di nullità). La nullità opera ab origine e non a seguito di un provvedimento che la dichiara.
Per mero tuziorismo il punto 76 UDG, ribadisce testualmente una caratteristica intrinseca nel concetto di nullità, ovvero il fatto che non deve essere dichiarata da nessuno. Tale circostanza rafforza la inequivocabile volontà del Legislatore Canonico in tale senso.
Se un atto nullo dovesse comunque trovare esecuzione, tutti gli effetti derivanti dall’esecuzione sarebbero parimenti nulli.
A fronte di un atto nullo, la semplice inerzia nell’accertamento della nullità medesima, non modifica alcunché nel mondo del diritto. L’atto nasce e rimane nullo.