Pubblicato su radiospada.org, 10 novembre 2019.
- a cura di Luca Fumagalli
Robert Hugh Benson (1871-1914) è una delle figure più rappresentative della letteratura cattolica inglese di inizio Novecento. Difatti furono pochi gli autori che, al pari del monsignore – figlio dell’anglicano arcivescovo di Canterbury e perciò uno dei convertiti illustri del suo tempo – seppero efficacemente piegare la narrativa alle esigenze evangelizzatrici. Sia nei romanzi storici che nelle opere di ambientazione contemporanea Benson si rivelò un prosatore d’eccezione, divenendo grazie a capolavori quali Il padrone del mondo (1907) uno dei primi autori “papisti” a ottenere nel Regno Unito un vasto consenso di pubblico e critica.
Quando il monsignore morì, il mondo del cattolicesimo britannico era consapevole di aver perso una delle sue figure più rappresentative, un prete infaticabile – sovente ripeteva: «Se veramente vuoi fare una cosa, la puoi fare!» – e una punta di diamante della cultura cristiana contemporanea. Come ha notato giustamente Joseph Pearce in Catholic Literary Giants, «oltre a Chesterton e Belloc lo scrittore che più di tutti ricoprì un ruolo di primo piano nel revival letterario cattolico dei primi anni del XX secolo fu Robert Hugh Benson».
Anche nella morte, però, Benson si rifiutava di rimanere in silenzio. I suoi libri seguitavano a vendere bene e non mancarono gli articoli in cui venivano elogiate le sue doti di romanziere e predicatore («apparteneva al grande mondo anche se raramente era in accordo con esso», scriveva il confratello J. J. Watt).
Del resto nessuno come lui era riuscito fino a quel momento a coniugare così efficacemente la narrativa con l’apologetica, facendo di ogni scritto un’occasione di conversione per il lettore. Secondo il Shane Leslie di The End of a Chapter, «con fecondo fervore [il monsignore] aveva prodotto una serie di romanzi che potrebbero esse descritti come le lettere di Hugh il predicatore agli anglicani, ai perbenisti, ai sensuali…». Anche Evelyn Waugh la pensava allo stesso modo: «Lavorava senza pensare al dopo, come se il Giorno del Giudizio fosse imminente, attingendo ampiamente da tutti i suoi talenti per portare quante più anime possibile tra i suoi immediati vicini al loro vero fine in Dio».
Nel cattolicesimo Benson era riuscito a trovare la solidità dottrinale che cercava da tempo: la Chiesa era veramente la casa costruita sulla roccia, di cui il Papa è il fedele custode. Al di fuori vi era invece quell’anarchia delle libere opinioni che era figlia della Riforma protestante, un pericolo da prendere sul serio onde evitarne il contagio.
Il monsignore era stato una meteora del cattolicesimo inglese e la sua opera culturale – intesa come servizio alla Fede del popolo, alla sua maturazione – aveva goduto in poco tempo di una vastissima eco (l’etichetta di “esotico” che gli affibbia Waugh non è dunque così fuori luogo). Per questo, immediatamente dopo la sua scomparsa, si scatenò una sorta di “Benson-mania” che diede il via a iniziative e biografie volte a preservarne la memoria.
Nondimeno, con il passare degli anni i libri del monsignore – la cui parabola da cattolico coincise, grosso modo, con gli anni del pontificato di San Pio X – vendettero sempre meno, e quello che in molti avevano considerato il nuovo astro nascente della letteratura inglese finì nel dimenticatoio. Il motivo, per Pearce, è forse da ricercare «nella sua difesa militante e intransigente della Fede, una militanza e una scarsa inclinazione per il compromesso che divennero stranamente sospetti nell’epoca dell’ecumenismo. Nei decenni che seguirono la sua morte, Benson venne accusato di “trionfalismo” (come se la Chiesa militante non fosse sempre unita misticamente alla Chiesa trionfante). Persino tra i cattolici c’è chi criticò il suo energetico proselitismo e lo straordinario zelo».
Ancora oggi, al di là de Il padrone del mondo, amato sia da Benedetto XVI che da Francesco – per quanto storpiato e malamente interpretato – i romanzi e i saggi di Benson interessano solo a una piccola nicchia di appassionati. Nelle pagine dei suoi libri, soprattutto quelli storici, brilla infatti una Fede genuina, che rifiuta ogni compromesso, lontana anni luce dall’ecumenismo e dal sentimentalismo che caratterizzano invece il cattolicesimo odierno, intriso di modernismo. Ecco perché la sua bibliografia risulta oggi scomoda, a tratti scandalosa, soprattutto quando vengono narrate le storie gloriose dei martiri dell’epoca elisabettiana, uomini e donne che fecero della religione un punto fermo nella loro esistenza tanto da voler morire per essa.
Certo nei suoi lavori i limiti non mancano: a volte i personaggi paiono eccessivamente bidimensionali e le trame ripetitive, così come il fine apologetico un po’ troppo scoperto può allontanare molti dei lettori potenziali. Tuttavia l’opera di Robert Hugh Benson è un tale tesoro spirituale che merita di essere riscoperto, gustato e meditato. I benefici, c’è da starne certi, non mancheranno.