Intervista esclusiva a Francesco Patruno. Il Codice Ratzinger ha fondamento canonistico?

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Il giorno 17 marzo 2023, il dott. Andrea Cionci ha pubblicato sul portale online de Libero Quotidiano un articolo recensione di risposta al nostro libro di recentissima uscita, Non era più lui, un esame dettagliato delle dimissioni di Benedetto XVI e sulla dimensione canonica dell'emeritato papale a firma del dott. Federico Michielan, corredata infine da un'intervista condotta dal Sottoscritto all'avv. Francesco Patruno, grande esperto di storia della Chiesa e di Codice di diritto canonico. L'avvocato Patruno, che è particolarmente citato nell'articolo del dott. Cionci, ha deciso di accettare la nostra richiesta di rilasciare una nuova intervista, stavolta a titolo gratuito, per spiegare quanto comparso su Libero circa la sua presunta vicinanza alle tesi "cionciane".

 

A firma di Gaetano Masciullo

Ci può dire cosa è successo?

Vi ringrazio dell’opportunità che mi date per chiarire.
Io ho avuto da un paio d’anni conversazioni in chat con il dott. Cionci. Ed in più di un’occasione gli ho lamentato gli errori – canonistici e non solo – della sua tesi. E lui ha sempre rimbrottato affermando la correttezza della sua tesi e che Benedetto XVI avrebbe avuto una sorta di colpo di genio nello “scismatizzare” così quella che, secondo lui, sarebbe la falsa chiesa.
Ad ogni buon conto, veniamo al fatto specifico. Lo scorso venerdì 17 marzo, mentre ero intento a lavorare, un amico mi mandava un link ad un articolo del giornalista Cionci. Quan-do l’ho visto, sono rimasto basito. Non perché egli avesse tentato una confutazione del libro dell’amico Michielan (cosa che, in fondo, mi aspettavo), ma piuttosto perché si rendeva pubblica una mia conversazione privata con lui risalente allo scorso 30 gennaio, senza che avessi mai autorizzato siffatta pubblicazione e, per giunta, estrapolando una frase dal suo conte-sto, quasi per volermi assoldare tra i sostenitori della tesi del giornalista.
Questo è stato per me discutibile. Subito ho scritto al giornalista, chiedendo la rettifica, evidenziando che gli scrivevo come avvocato! Gli riportavo per intero le mie parole del 30 gennaio scorso e gli spiegavo – qualora non fosse stato già chiaro – quale fosse il senso delle stesse.
Onestamente, seppur a denti stretti, il giornalista provvedeva al cambiare sia il titolo del suo articolo sia alcune sue parti, sebbene poi aggiungesse un inciso: "Francamente, non siamo sicuri che la rettifica concordata col canonista sia stata per lui un guadagno".
Ora, da parte la circostanza che io non concordavo nulla né mi accordavo con lui su ciò che dovesse scrivere, ma semplicemente gli chiedevo ciò che impone la legge e cioè che fosse riportato correttamente il mio pensiero, a parte questo dicevo, e pur comprendendo la libertà di parola di un giornalista, mi fa specie che con quest’inciso si sia voluto quasi dire “non hai voluto assoldarti alla mia tesi e quindi ci perdi”. Eh no, io non ci perdo nulla, visto che si tratta di una tesi che mai ho supportato; peraltro, quanto accaduto non depone – credo – a suo vantaggio.

Ma, esattamente, se ce lo può dire, cosa accadeva il 30 gennaio scorso?

Quel giorno era uscito un articolo del giornalista ed io lo ringraziavo per la pubblicazione di questo, è vero. Si trattava, però, in buona sostanza, di un grazie tra l’ironico ed il sarcastico, in quanto subito riportavo un passo del suo articolo in cui scriveva, riferendosi al defunto Benedetto: "Se fosse morto, il conclave che sarebbe seguito sarebbe stato valido. Invece, papa Benedetto ha fatto in modo che chiunque venisse eletto dopo di lui non fosse un vero papa". Ed aggiungevo che quanto scritto dal giornalista era assai grave, perché si traduceva in un gravissimo atto di accusa verso il defunto Benedetto, poiché si descriverebbe il tentativo di Ratzinger di demolizione del papato, dimostrandosi una sua visione machiavellico-politica, che è ben lontana dalla concezione cattolica del papato. In altre parole, gli facevo capire che, accreditandosi la sua tesi, si dovrebbe concludere che Benedetto avrebbe avuto una visione puramente umana, politica dell’ufficio papale, quasi fosse un regno mondano. Ed aggiungevo ancora che, secondo il cardinal De Vio, cioè il cardinal Cajetano, se così fosse, il defunto papa avrebbe commesso un gravissimo peccato mortale, compromettendo persino la sua salvezza eterna.
Insomma, dandosi credito alla tesi del giornalista, a mio modo di vedere, si potrebbe dubitare persino della salvezza eterna del defunto Benedetto. E chiosavo: Dio non voglia che sia così!
Questo era in sostanza ciò che gli scrivevo.
Comprendo che si tratta di un filone – quello del complottismo – oggi molto à la page, che si deve alimentare per poter raccogliere consensi, ma, alla fine, se si esamina approfondita-mente, alla luce del diritto canonico e della morale cattolica, stando alla tesi prospettata, la figura di Benedetto non ne uscirebbe bene. Anzi...

Ci può spiegare meglio il riferimento alla grazia di stato?

Sì, in buona sostanza, se si accreditasse la tesi del giornalista, si dovrebbe concludere che Ratzinger avrebbe impedito – in maniera grave – che la grazia di stato si trasferisse da lui al nuovo eletto. Ora, il papa non è padrone di questa grazia, che è data da Dio.
Per cui, se Benedetto XVI avesse architettato un piano per impedire che Dio potesse conferire al nuovo eletto la grazia ed i carismi necessari per l’espletamento del suo ministero, significherebbe ammettere che egli avrebbe gravemente peccato dinanzi a Dio, trattenendo per sé ciò che non gli spettava ed arrecando un grave danno spirituale all’intero orbe cattolico, che nulla può sapere o essere responsabile di beghe e giochini politico-ecclesiastici avvenuti tra le mura leonine.
Insomma, la figura di Benedetto ne uscirebbe male.
E questo proprio perché si riduce il papato (e la Chiesa) ad una sorta di impresa multinazionale o partito politico e la lotta per il papato alla lotta per una presidenza della Repubblica, dimenticando che il papato ha una caratteristica: e cioè che una volta designato un soggetto al pontificato, il Signore poi gli conferisce le grazie necessarie per il compimento di quell’ufficio, fosse anche un pessimo soggetto. Nel libro di Michielan riportavo l’esempio di papa Pio II, che, sebbene avesse avuto posizioni, diremmo oggi, eterodosse o border-line, in quanto sostenitore delle idee conciliariste, divenuto pontefice le abiurò formalmente, dicendo che quelle le aveva sostenute Enea (nome secolare dell'allora Pontefice), che non c’era più, essendoci ormai solo Pio.
Non si tratta di una grazia a corrente alternata come si sostiene, bensì di una grazia trasformante il soggetto rendendolo capace di compiere l’ufficio a cui è stato designato. Per rendere l’idea, mi piace qui far riferimento ad una scena del film del 1964, Becket e il suo re, con Richard Burton, Peter O’Toole ed altri celebri attori. Ebbene, in una scena, che mi ha sempre impressionato, si assiste alla consacrazione episcopale di Thomas Becket, impersonato da Richard Burton, e si vede che, nel momento in cui il vescovo di Londra gli impone le mani, quasi l’imposizione lo trasforma da libertino e fedele esecutore degli ordini del sovrano in strenuo difensore dei diritti della Chiesa. La grazia di Dio, se l’uomo l’accoglie, lo trasforma, così come ha trasformato, lungo tutta la storia della Chiesa, i peggiori leoni e belve in docili agnelli. La grazia di Dio è più forte del peccato e delle mancanze degli uomini. Se non crediamo questo, che razza di cristiani siamo?

Nell’articolo si sostiene che si trova strano, per il giornalista, che la grazia di stato avrebbe potuto trasformare persino un eretico e non che potesse ispirare un papa nel suo piano in difesa della Chiesa.

Per quello che abbiamo detto prima, è evidente che la grazia non potesse assistere Benedetto in un atto (come l’intende il giornalista), che, di per sé, sarebbe peccaminoso, in quanto negatorio della grazia stessa poiché ostacolante il suo transito dal papa rinunciante al neo-eletto. Cioè, dandosi per buona la tesi sostenuta dal giornalista, la conseguenza sarebbe che si deve ritenere che papa Benedetto consapevolmente avrebbe negato l’efficacia di questa grazia. E quindi come avrebbe potuto assisterlo in un atto che rappresenterebbe la sua stessa negazione?
Non a caso, sempre quel 30 gennaio, scrivevo al giornalista, in cui ribadivo la mia posizione, che «solo un ateo poteva concepire un piano così machiavellico» (se si accreditasse, ovviamente, la tesi del “codice Ratzinger”) e che «la grazia di stato è un elemento irrefutabile dei sacri ministeri. Se non si crede a questo, si è sostanzialmente atei e non si crede che la Chiesa sia di Cristo e che i sacri ministri, per quanto peccatori, siano solo degli strumenti Suoi».
La verità è che in questa tesi vi sia una visione puramente orizzontale, politica del papato e della Chiesa. La Chiesa, sebbene sia una realtà palpabile, visibile, concreta – come diceva S. Roberto Bellarmino nel De controversiis – come il regno di Francia o la repubblica di Venezia, tuttavia non è assimilabile ad esse. Per cui, non può leggersi questa realtà inforcando le lenti del giornalista di fatti politici.

Perciò, quel “ringraziamento” da Lei fatto era puramente ironico.

Esatto. La valenza, che vi avevo dato, in fondo, era quella. Comunque mi sembra chiaro che non sia stato reso il senso di quanto da me scritto, che, come detto, non aveva il significato di una ratifica della tesi prospettata dal giornalista, ma di una presa di distanza da essa, come del resto avevo sempre fatto pure in precedenza. Comprendo che non è da tutti saper cogliere l’ironia, specie in una conversione scritta (come i social ci hanno abituati), ma forse sono stato io a non farmi capire adeguatamente. Non saprei. È stato un mio limite. Forse.
Basti dire, d’altronde, che nell’unica mia intervista data al giornalista Cionci anni fa (v. qui), sostenevo le stesse cose argomentate sia nel libro di Michielan sia altrove. E sia - soprattutto – in privato. Non ho cambiato posizione. Dicevo in quella circostanza, rispondendo a sua domanda se Benedetto avesse rinunciato in maniera non consapevolmente invalida: «In buona sostanza sì, ritengo che la rinuncia di Benedetto XVI presenti molte criticità dal punto di vista giuridico. Del resto, egli è un teologo, non un giurista o un canonista e quindi è più che naturale che abbiano delle forme mentali differenti. D’altronde non penso sia utile chiedere a lui un parere, anche perché i papi quando si sono pronunciati sulla propria o altrui legittimità hanno sempre errato. Per es., Martino V si riteneva successore di Giovanni XXIII Cossa, che era in realtà un antipapa, ed al contrario reputava che Gregorio XII – il papa legittimo – fosse, invece, l’antipapa». Aggiungevo: «È plausibile, parlando da credente, che vi sia una sorta di “intelligenza” dietro tutto ciò volta a rendere invalide le dimissioni di Benedetto XVI. Non sono in grado di dire se questa strategia provenga dal puro caso, dalla mente di Benedetto XVI oppure da una forma di “intelligenza superiore”. Questo lo lascio valutare ad altri». È ovvio che parlavo dell’intelligenza di Dio, che tutto dispone nei suoi disegni provvidenziali, in quanto era una risposta – come specificavo – da credente.

Qual è la sua posizione?

Io sono una persona trasparente e coerente sia in pubblico sia in privato. Ho sempre sostenuto, sin dal 2013, e quindi ben prima del giornalista o di altri, che l’atto di rinuncia di Benedetto XVI presentasse diverse criticità, meritevoli di approfondimenti da parte di storici e canonisti. Chi mi conosce sa che questa è sempre stata la mia posizione. Non tanto per l’aspetto riguardo al munus/ministerium, che a mio avviso – come dicevo anche in quell’intervista a Cionci – non porterebbe a nulla («forse Ratzinger ha usato l’uno o l’altro per evitare una ripetizione»), in quanto – spiegavo meglio nel libro di Michielan – i due termini sono usati pressoché come sinonimi. E questo non lo sostengo io solo, bensì insigni canonisti, che, in epoca non sospetta, si sono interessati al tema. In primis, il cardinal Péter Erdő, che, già docente di diritto canonico, ha dedicato molti studi al tema del munus, del ministerium e dell’officium. Per cui, sulla materia è – può dirsi – pressoché un’autorità indiscussa.
Io ho sempre detto che preferivo parlare di papato attivo e passivo e di ufficio primaziale di papa e quello di Vescovo di Roma. Ed ho sempre posto in luce come, per un verso, la distinzione tra papato attivo e passivo avesse chiare ascendenze rahneriane (visto che il teologo tedesco lanciava questa distinzione sin dagli anni ’60 del secolo scorso) e, per altro verso, come l’atto di rinuncia scindesse quasi l’ufficio primaziale da quello di vescovo di Roma, essendo stata scritta in maniera nettamente diversa da quelle scritte, ad es., da Paolo VI o Giovanni Paolo II, in cui questi papi dichiaravano di rinunciare sia all’un ufficio sia all’altro. A ciò aggiungevo sempre la questione dell’apposizione del termine, che, a mio con-vincimento, non sarebbe stato ammissibile, in quanto l’atto di accettazione come quello di rinuncia (quale contrarius actus) non possono ridursi a meri atti amministrativi, poiché essi coinvolgono un altro Soggetto, Dio. Secondo la tradizione canonistica, infatti, si tratterebbe di atti dispositivi, in quanto dispongono l’accettante o il rinunciante a ricevere da Dio o ad esserne privato da Lui l’autorità su tutta la Chiesa.
In buona sostanza, l’atto – ho sempre sostenuto – presentava diversi aspetti degni di approfondimento. E questo, a mio avviso, è coerente con la personalità di Benedetto XVI.

Che intende dire?

Il defunto Ratzinger, da buon tedesco, ha sempre avuto una certa ritrosia verso il mondo giuridico, potremmo dire inconscia. So per certo, ad es., avendolo appreso da prelati direttamente interessati che allorché si doveva discutere di questioni giuridiche con il papa Benedetto, questi accordava l’udienza non in tempi brevi, ma dopo più di un anno! Ed infatti il suo scarso interesse per il mondo del diritto talora lo ha anche condotto a compiere degli errori o grossolanità. Basti pensare all’espressione numquam abrogatam contenuta nel m.p. Summorum Pontificum, che ha fatto scorrere fiumi di inchiostro su come dovesse intendersi, se cioè quel mai abrogato riguardo il Messale di S. Pio V (come emendato da Giovanni XXIII nel 1962) dovesse ritenersi in senso giuridico-canonico o, invece, soltanto in senso storico. Ora non entro nella questione. Ma è evidente che la non padronanza di alcune questioni giuridiche o, grossolanamente, delle faccende del mondo ecclesiastico, spesso lo facevano vivere quasi in un altro mondo. Potrei fare l’esempio anche del celebre discorso a Ratisbona, in cui la citazione del Dialogo dell’imperatore bizantino Manuele Paleologo creò non poche proteste nel mondo ed obbligarono la Santa Sede a pubblicare in poche ore ben quattro versioni “corrette” di quel discorso (che con un po’ di pazienza certosina si possono reperire ancora in rete), l’ultima delle quali – e che si trova attualmente sul sito vaticano – era diversa da quella originale, che il papa aveva letto – in tedesco.
Ho trovato conferma a questa mia convinzione nel recente libro di mons. Georg Gänswein, Nient’altro che la verità. La mia vita al fianco di Benedetto XVI, in cui il già segretario di papa Ratzinger, raccontando un episodio (che non sto qui a riprendere), commentava che si trattava «dell’ennesima prova che Ratzinger viveva un po’ “fuori dal mondo (ecclesiastico)”, come scherzosamente dicevamo tra noi, e che si muoveva su un livello decisamente più etereo rispetto agli altri confratelli porporati, […]» (pag. 9).
Se si considerano questi aspetti, non destano stupore sia il contenuto della rinuncia sia l’atteggiamento conservato in seguito da Benedetto.
E veniamo alla questione della sede impedita.
Questa storia non l’ho mai condivisa né sostenuta, non foss’altro perché non rispetta i presupposti per l’applicazione della normativa.
Dico meglio: si sostiene che Benedetto XVI si sarebbe rifugiato in sede impedita a norma del can. 412 del codice di diritto canonico. Ora, da parte la discussione se questo canone si applichi o no al papa (e sul punto la canonistica non è unanime non foss’altro perché vi è – per il papa – un apposito canone – il can. 335 – che rinvia ad una legge ad hoc ad oggi mai promulgata), nondimeno perché possa parlarsi di sede impedita si dovrebbero ritenere sus-sistenti i presupposti previsti dalla citata norma canonica. Mi pare ovvio. Leggo ora il canone per chiarezza: «La sede episcopale si intende impedita se il Vescovo diocesano è totalmente impedito di esercitare l'ufficio pastorale nella diocesi a motivo di prigionia, confino, esilio o inabilità, non essendo in grado di comunicare nemmeno per lettera con i suoi diocesani». Quindi, la normativa richiede che la sede sarebbe impedita allorché il vescovo sia prigioniero, al confino, in esilio o sia gravemente inabile, condizioni queste che non gli permettano – e questo è l’aspetto fondamentale – «di comunicare nemmeno per lettera con i suoi diocesani».
Un caso di questi giorni, che potrebbe essere esemplificativo di una sede impedita, è la vicenda dell’eroico vescovo di Matagalpa, in Nicaragua, mons. Rolando Álvarez, che, avendo rifiutato l’esilio, è stato condannato dal regime di Ortega a ventisei anni di carcere, in quanto accusato di essere “traditore della patria”. Per questo vescovo e la sua diocesi, infatti, ci si è chiesti cosa potrebbe accadere qualora il vescovo fosse condotto in prigione (v. qui).
Nel libro di Michielan, peraltro, io indicavo anche qualche altro caso storico di sede impedita, come quella avutosi sotto il papa Pio VI Braschi.
Nel caso di Benedetto XVI, invece, sebbene possa dirsi abbia trovato, durante il suo regno, degli ostacoli – come tutti i papi, d’altronde (basti pensare a quelli incontrati da Paolo VI dopo l’Humanae vitae o durante la stagione del ’68) – ciò non equivale a dire che si tratti di una sede impedita. E non è sede impedita poiché il papa non era né prigioniero, né in esilio né al confino né inabile e – soprattutto – non era impedita la comunicazione, almeno per lettera, con i suoi fedeli. Benedetto XVI, in effetti, che io sappia, riceveva persone e scriveva ai fedeli. Per cui, parlare di sede impedita per papa Ratzinger mi sembra davvero azzardato.
Né possono invocarsi le parole riportate da mons. Georg Gänswein ad un convegno, in occasione della presentazione di un libro, che – ammesso siano autentiche di Benedetto XVI – sono state interpretate unilateralmente dal giornalista Cionci, ma non vi è prova alcuna che il richiamo ai profeti Geremia ed Isaia compiuto dal monsignore volesse intendere che Benedetto si considerasse in sede impedita. È una congettura del giornalista, che però non ha riscontri obiettivi ed obiettivabili, visto che il senso di quelle parole ce le potrebbe rivelare solo mons. Gänswein (ammesso che ne sia al corrente).
Pure dandosi per un istante che la congettura del giornalista sia corretta, per di più, ciò non proverebbe nulla, poiché come detto quel che fa fede non sono le parole espresse dal defunto Benedetto XVI, bensì la ricorrenza oggettiva o no dei presupposti di legge. In fondo è lo stesso problema del valore da attribuire alle parole di Ratzinger allorché diceva di aver validamente rinunciato o altro.

Un’ultima domanda: ma la tesi – si afferma – sarebbe accreditata da vari accademici e giuristi.

È vero, ma nessuno di loro ha competenze in materia canonica. Abbiamo persone competenti in diritto amministrativo e minerario, in procedura penale, in diritto penale, ecc., ma nessuno – dico nessuno di questi – ha, che io sappia, competenze anche in diritto canonico. Il diritto canonico è una branca del diritto un po’ sui generis. Per alcuni è una disciplina teologica, che si studia con metodo giuridico o una disciplina giuridica, che si studia con metodo teologico. Comunque lo si intenda, questa peculiarità fa sì che si richiedano specifiche competenze.
L’essersi affidati a professionalità estranee a quest’ambito ha comportato l’aver ceduto ad approssimazioni quanto a veri e propri errori. Lo abbiamo visto circa la concezione della sede impedita. O anche, ricordo nel libro, la questione dei presunti errori di latino, che inficerebbero la validità giuridica dell’atto. A questo riguardo, proprio nella mia intervista di anni fa al giornalista, spiegavo il senso di quel rite manifestetur adoperato dal Codice di diritto canonico, che «non intende riferirsi alla circostanza che una dichiarazione di rinuncia sia manifestata senza alcun errore sintattico o grammaticale: la canonistica, in effetti, l’ha sempre inteso nel senso che la grave decisione assunta da un Papa sia manifestata, esternata debitamente affinché, dal punto di vista del diritto, sia potenzialmente conoscibile dalla Chiesa, allo scopo di poter determinare la vacanza della Sede Apostolica e, perciò, l’inizio della procedura di elezione del successore nell’ufficio».
Penso quindi di aver dato al giornalista, in quella mia intervista, le giuste chiavi di lettura, dal punto di vista canonistico. Evidentemente non ha inteso seguirle ed approfondirle. È il bello della libertà umana, in fondo...

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