Pubblicato su La spelonca dei libri, 27 febbraio 2011.
- A cura di Paolo Nardi
In mezzo alle festanti acclamazioni in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia da parte di un’intellighenzia tutta tesa all’esaltazione del sacro fuoco risorgimentale e del peggiore retoricume patriottardo (è di pochi giorni fa l’invito di Beppe Severgnini sulla prima pagina del Corriere della Sera a fregiarci tutti di coccarde tricolori come tanti novelli Camille Desmoulins alla vigilia della Rivoluzione Francese), è utile rispolverare questo recente libretto di Angela Pellicciari che riunisce suoi articoli usciti anni prima su La Padania (uno dei pochi giornali che, per ovvie motivazioni politiche, non ha accettato di fare da cassa di risonanza al coro risorgimentale), Il Foglio e Studi Cattolici. Come dice il titolo, l’autrice dice chiaramente che conoscere la storia dell’Unità d’Italia non serve per combattere una battaglia nostalgica in nome di una qualche restaurazione, ma serve per capire cosa sta accadendo oggi: come il Risorgimento, inteso come una resurrezione da 1500 anni di Italia cattolica (segno di schiavitù e inciviltà), così l’unità d’Europa è stata concepita in nome di bellissime parole che negano le sue radici cristiane. Si capisce subito che siamo nel campo della storia militante: prendere o lasciare, verrebbe da dire, ma in realtà il contenuto del libro è molto interessante. Citando le fonti, è possibile vedere come il Risorgimento sia stato guidato da uno Stato, il Piemonte, che non era il più significativo della penisola italiana (e dove, per di più, si parlava spesso francese), ma che, grazie a un’abilissima opera propaganda, affermò sempre di essere superiore dal punto di vista morale, in quanto fautore di una monarchia costituzionale e di uno stato liberale (gli altri italiani erano retti da monarchie assolute e quindi erano immorali). Le cose stavano in maniera radicalmente diverse, a cominciare dalla guerra che il parlamento subalpino si ritrovò a combattere, nel 1855, in piena guerra contro l’Austria, contro i gesuiti (definiti “portatori di peste”) in nome della costituzione e della libertà, mentre lo Statuto Albertino del 1848 stabiliva, come articolo primo, la religione cattolica come la sola religione di Stato (quindi il Regno di Sardegna era uno stato confessionale. Da ciò si intuisce quale fine avrebbe atteso gli altri ordini religiosi, tanto che nel 1855 il governo Cavour-Rattazzi soppresse 35 ordini religiosi mendicanti e contemplativi (domenicani, francescani e monache di clausura), in nome del motto “libera Chiesa in libero Stato” (Cadorna diceva che il potere spirituale ha a che fare con l’anima, quindi il papa ha autorità solo sulle credenze, mentre il potere temporale ha potere sul materiale, anche sui beni degli istituti ecclesiastici che sono e restano materiali; figuriamoci se la Chiesa, che non può possedere delle proprietà, può possedere uno Stato). Una guerra portata avanti da un 2% della popolazione che riteneva di essere investito da un compito morale e intellettuale, il dovere progressista di liquidare la nazione verso la libertà e la costituzione intese alla liberale: da un giorno all’altro, oltre 57 mila persone furono private di tutto quello che hanno per vivere (oltre che della vita che avevano liberamente scelto di fare). Tutti i beni degli ordini religiosi furono oggetto di un saccheggio pubblico appoggiato dalle grandi potenze dell’epoca, e decine di migliaia di edifici religiosi divennero stalle, caserme, manicomi, o passarono ai privati. Inoltre, furono abolite tutte le 24 mila opere pie che provvedevano ai bisogni dei più poveri, e in un colpo solo venne meno tutta l’organizzazione sociale, economica e religiosa: erano state gettate le basi per l’emigrazione che avrebbe interessato l’Italia nei decenni che seguirono l’Unità. Che l’Unità d’Italia sia stata fatta contro la Chiesa non lo dicono solo i fatti e il magistero pontificio, ma lo dice anche (e con molta chiarezza) quella corrente ideologia che fa capo alla massoneria e al Grande Oriente d’Italia, secondo cui il compito del Risorgimento è stato quello di “liberare l’Italia dal giogo di Roma cattolica”. Un’idea condivisa dallo stesso Cavour, convinto assertore dell’idea che il 98% della popolazione, non avendo potere di voto e non essendo quindi legalmente rappresentato, non contava niente e non costituiva voce in capitolo. Siamo nella gnosi, quella corrente di pensiero convinta che pochissimi costituiscano l’avanguardia morale e intellettuale dell’umanità, e che tutti gli altri debbano seguire quei pochissimi. Tra l’altro, dal momento che, alle elezioni del 1855, i cattolici raddoppiarono i loro consensi passando dal 20% al 40%, il democraticissimo Cavour ricorse tranquillamente all’annullamento delle elezioni, accusando il clero di indebito abuso del diritto di parola. Da questi fatti occorrerebbe dunque rivalutare anche il tanto famoso e vituperato non expedit di Pio IX, il quale riprese il motto né eletti né elettori del sacerdote Giacomo Margotti: il papa e i cattolici, non contrari a un’unificazione federale (all’epoca si parlava di “lega”), presero atto che per loro non c’era spazio d’azione. Il libro prende quindi in esame tutti i temi sui quali la storia ufficiale ha sempre sorvolato o taciuto: il traffico degli schiavi di Garibaldi, la corruzione mediante la quale il meridione fu conquistato senza opporre resistenza, i debiti del Piemonte (al punto che, se nel 1861 l’unità non fosse stata ultimata, il Regno di Sardegna sarebbe finito in bancarotta), l’appoggio delle grandi potenze europee, la farsa dei plebisciti, l’avversione verso la scuola libera (libertà di coscienza, libertà di stampa, libertà di culto, ma nessuna libertà d’insegnamento), la proibizione di stampa e diffusione delle encicliche papali nel Regno di Sardegna (nonostante l’articolo 28 dello Statuto tutelasse la libertà di stampa), le continue calunnie volte a nascondere e deformare la realtà (a dispetto di quanto affermato dalla stampa liberale e dalla vulgata risorgimentale, in Piemonte c’era il più alto numero di carcerati d’Europa e moltissime condanne a morte, mentre nello Stato Pontificio e nel Regno delle Due Sicilie c’era l’uso di commutare la massima pena). Se si considera che ai giorni nostri il cattolico Buttiglione non deve far parte del governo della democratica Europa perché ha osato dire che l’omosessualità è peccato, viene da pensare che le analogie sono preoccupanti: come allora, quando la nuova Italia fu modellata sulla famosa frase di Massimo D’Azeglio “l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli italiani”, anche oggi i cattolici possono essere accettati solo se non parlano.