Pubblicato su L'Osservatore Romano, 6-7 agosto 2012 p. 4.
- a cura di Enrico Reggiani
«Il Padrone del mondo» di Robert Hugh Benson riproposto nella prima versione italiana.
Romanzo apocalittico? Narrazione profetica della venuta dell’anticristo? Sono queste solo due delle numerose definizioni possibili di Lord of the World (Il Padrone del Mondo), opera narrativa del sempre sorprendente Robert Hugh Benson (1871-1914), figlio minore dell’arcivescovo anglicano di Canterbury (Edward White Benson, 1829-1896) e sacerdote cattolico dal 1904. Non v’è dubbio che le definizioni citate colgono almeno in parte nel segno; tuttavia, chi scrive osa proporre quella di «classico proiettato in un futuro che ora è il nostro passato», in quanto, forse più delle precedenti, in grado di indicare la capacità di Benson di attingere a quell’amore per la realtà dell’umano che, comprendendolo a fondo, sa leggervi e prevedere con chiarezza (spesso scambiata per profezia e sempre politicamente scorretta) sia la certezza del baratro, sia la speranza della conversione.
È davvero da leggere tutto d’un fiato Lord of the World, del quale non si svelerà ovviamente la trama. Nei suoi tre libri dopo il prologo, popolati anche dai membri della famiglia (“a scadenza”) Brand e da una nutrita costellazione di altre figure, fluiscono e si rincorrono gli eventi di tre fasi narrative assai avvincenti: The Advent, l’irrefrenabile “avvento” delle nuove, magnifiche, umanitaristiche sorti e progressive; The Encounter, più efficacemente inteso come folgorante «incontro» tra Franklin e Felsenburgh che come generica designazione dello «scontro» finale (visto il significato dell’unica occorrenza di encounter nel testo del romanzo); The Victory, termine di immediata evidenza, che il testo declina sia variamente, sia come indicazione precisa di un esito apparentemente favorevole all’anticristo Julian Felsenburgh (chi leggerà, in realtà, vedrà…): costui — come l’8 febbraio 1992 disse all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano il cardinale Joseph Ratzinger — protagonista di una «civiltà unificata», dotata del «potere di distruggere lo spirito», e «rappresentato come grande portatore di pace in un siffatto ordine mondiale».
Si comprende pienamente Lord of the World se lo si inserisce in un dittico narrativo con il successivo The Dawn of all (L'alba di tutto) in cui lo stesso Benson lo colloca, stando a quanto si legge nella prefazione a questo secondo romanzo, pubblicato nel 1911: «in un precedente volume, intitolato Lord of the World, ho cercato di tratteggiare il tipo di sviluppi che, da qui a cent’anni, mi pare possano essere ragionevolmente previsti se le attuali linee del cosiddetto “pensiero moderno” dovessero protrarsi per un periodo di tempo appena sufficiente; e sono stato ripetutamente informato dell’effetto eccessivamente depressivo e scoraggiante prodotto da quel libro sui cristiani inclini all’ottimismo». Per esplicita indicazione di Benson, dunque, questi due romanzi vanno pensati, compresi, gustati in sequenza, in quanto emblematici della constatazione che «ogni periodo è un periodo critico, giacché ogni periodo ha in sé il conflitto tra due forze inconciliabili», alla cui temporanea ed incostante tirannide si è spesso piegata l’esperienza umana nei secoli dei secoli. In Lord of the World — uscito a Londra nel 1907 e a New York l’anno successivo — tali forze hanno lineamenti che Benson riassume in un prologo sapiente e discreto. Lo accostiamo ignorando un’annotazione introduttiva dell’autore, troppo di frequente dimenticata nelle versioni italiane, che pare, in realtà, pensata per invitarci all’esercizio di quel «non conformismo cristiano [che] è il vero amore del mondo» di cui ha detto Benedetto XVI durante una visita al Pontificio Seminario Romano Maggiore . Eccola: «Le persone che non gradiscono i prologhi noiosi, non devono leggere questo. È essenziale solo per comprendere la situazione, non la storia». A dire il vero, non è poi così “noioso”, nel prologo, il dialogo tra il «vecchio venerando dalla faccia vigorosa» Mr Templeton, il trentacinquenne padre Percy Franklyn ed il più giovane padre Francis (che fa John di nome, ma solo per Percy e solo nel momento del loro definitivo distacco). Al contrario, le parole di tutti e tre sono assai istruttive e strategiche per il resto del romanzo e vengono pronunciate nella cornice di una Londra — non casualmente — capovolta, in cui si vive sottoterra e si fatica a distinguere il giorno dalla notte. Il «vecchio statista conservatore» Templeton tratteggia un mondo in cui «vi sono tre forze religiose: il cattolicesimo, l’umanitarismo e le religioni d’Oriente» e dà conto delle conseguenze del conflitto tra le prime due sulla convivenza umana e la sua declinazione sociale e politica, aggiungendo che «delle ultime nulla posso dire, sebbene inclini a credere che il Sufismo resterà vincitore». Padre Francis, dal canto suo, manifesta, con i suoi lineamenti ordinari e malinconici, quella superficiale inclinazione a ritenere che «complessità meccanica» sia «sinonimo di grandezza vera» e a non comprendere che «nell’esteriorità più fastosa si nasconde più sottile l’insidia». Ben diverso, invece, da entrambi è padre Percy Franklin, il vero protagonista del romanzo, «uno di quegli uomini che non si possono guardare una sola volta». Fin dalle prime battute del prologo, non si può non ammirare la genialità letteraria che ne crea alcuni dei tratti più evidenti: primo fra tutti, il nome Percy, che potrebbe essere inteso come forma breve di Percival — proprio lui, il leggendario e visionario protagonista della ricerca del Sacro Graal — e che trova simbolico completamento in una personalità dotata anche di «uno spirito d’osservazione acutissimo». In secondo luogo, quel «singolare aspetto» e quei «capelli tutti bianchi» che egli condivide con il suo temibile antagonista, di cui verrà persino sarcasticamente definito «curiosa parodia»: indizio, questo, persino fisicamente riscontrabile, del mistero di una natura umana che può farsi dannata o beata a seconda che — si potrebbe dire riecheggiando un passo folgorante del romanzo di Benson — scelga il fertile orizzonte teologale prospettato dal trittico “carità, speranza, fede” o lo sterile territorio umanitaristico circoscritto della triade “filantropia, soddisfazione, cultura”. Anche il temibile antagonista di Percy Franklin — colui che verrà proclamato Lord of the World da folle estatiche e adoranti — ha un nome e un cognome come ogni essere umano, di cui rappresenta l’assurda e crudele divinizzazione. Il suo nome è Julian, come l’imperatore romano del IV secolo poi definito dai cristiani l’Ap ostata. Il cognome suona Felsenburgh e se ne potrebbe azzardare la traduzione con “castello/fortezza sulla ro ccia/rup e”: scelta doppiamente emblematica, da un lato, in quanto arguto e paradossale stravolgimento della house built on rock, la casa costruita sulla roccia di Matteo, 7,24; dall’altro, come imprevista eco del titolo della prima parte (Die Felsenburg ) di un romanzo dal titolo inequivocabile (Satan und Ischariot), scritto nel 1893-1894 dallo scrittore tedesco Karl May (1842-1912), assai apprezzato da Adolf Hitler negli anni a venire. Fino a qualche tempo fa, i lettori italiani potevano apprezzare Lord of the World nella traduzione con titolo Padrone del Mondo di Paola Eletta Leoni — oggi docente presso un’università messicana, nonché responsabile delle iniziative culturali del Centro Studi di Tonalestate — rivista da Severina Oleari Forti: l’aveva pubblicata nel 1977 la casa editrice Città Armoniosa (che oggi non è più in attività) a Reggio Emilia, ovvero — come ha acutamente osservato la traduttrice — nella «Mosca italiana, dove da vent’anni non si vede vano altro che balletti russi e mostre di pittrici cecoslovacche». Robert Hugh Benson faceva così la sua felice apparizione in quel vitale contesto editoriale, il cui nome «era preso da Charles Péguy, il socialista cristiano, morto nella battaglia della Marna». All’incirca dieci anni dopo, l’avrebbe poi ristampata senza sostanziali modifiche Jaca Book. Nel corso del 2011, invece, l’editore veronese Fede & Cultura ha meritoriamente riproposto il capolavoro bensoniano (con il titolo assai simile di Il Padrone del Mondo) recuperando la storica prima versione italiana del figlinese don Corrado Raspini (1908-2010), ma senza riportarne, ahimé, l’arguta prefazione. Originariamente pubblicata come Il Dominatore del Mondoper i tipi della fiorentina Vallecchi nel 1921, quella prima edizione nostrana apparve grazie all’interessamento dello scrittore Domenico Giuliotti (1877-1956). Davvero emblematica — per cogliere il rilievo attribuito all’op era dello scrittore inglese nel contesto italiano di quegli anni — è una lettera scritta il 18 marzo 1919 da Giuliotti all’amico Giovanni Papini (1881-1956) in cui il fondatore de La Torre. Organo della reazione spirituale italiana (1913-1914) definiva Lord of the Wo rl d «il capolavoro dello scrittore inglese», aggiungendo, da par suo, «tanto più che (se non m’inganno) mi sembra, in questi giocondissimi tempi, di grande attualità».