Pubblicato su ticinonotizie.it, 27 giugno 2022.
a cura di Irene Bertoglio
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Scacco matto alla morte (Fede&Cultura, Verona 2002) è il romanzo d’esordio di Stefano Chiappalone, che ha deciso di cimentarsi con la narrativa per dar forma letteraria alla passione per l’arte. Ne è scaturito un libro che unisce la suspence di un giallo a uno stile ironico e brillante, conducendo il lettore per le vie di Pisa, dove l’autore ha compiuto gli studi universitari, alla ricerca del mistero – poiché, come ogni giallo, ci scappa il morto – e anche del Mistero con la maiuscola, delle domande poste dal dramma della vita e della morte, plasticamente raffigurate da un celebre ciclo di affreschi. Dopo aver letto il libro tutto d’un fiato, ho incontrato lo scrittore per un’intervista.
Il giallo prende il titolo da un affresco։ il “Trionfo della Morte”.
«Il Trionfo della Morte del Camposanto pisano, dipinto da Buonamico Buffalmacco negli anni ’30 del Trecento (stando alle più recenti attribuzioni), è uno dei principali dipinti su questo tema inconsueto e per noi moderni quantomeno stravagante. Tra gli altri esempi, altrettanto noti ai cultori di storia dell’arte, si trovano quelli di Clusone (Bergamo) e Palermo, entrambi risalenti al Quattrocento. Questo affresco è legato anche a ricordi personali: negli anni degli studi universitari, trascorsi a Pisa, mi aveva letteralmente calamitato e andavo spesso a visitarlo, soffermandomi ora su questo ora su quel dettaglio. Ho ripreso a studiarlo, mosso anche dalla nostalgia per gli anni pisani, che considero tra i più belli e sereni della mia esistenza. Sono partito dagli studi di Luciano Bellosi, che negli anni ’70 hanno costituito una svolta riguardo alla datazione e all’attribuzione, leggendo poi altri saggi. Man mano che leggevo desideravo parlarne, far conoscere questo capolavoro (un po’ messo “in ombra” dalla torre pendente, che naturalmente costituisce l’attrazione principale per chi va a Pisa). Non essendo “titolato”, più che spiegare, potevo solo suscitare negli altri il mio stesso desiderio di saperne di più. Come fare? A un certo punto mi è venuto in mente di raccontare una storia che partisse proprio dall’affresco pisano.»
Vuoi dirci qualcosa sulla storia?
«Ho immaginato una vicenda incentrata sul Trionfo della Morte che riunisce la strada di Tancredi, un giornalista appassionato d’arte, a quella di Angelica, una vecchia conoscenza, e di altri personaggi a vario titolo legati all’affresco: studiosi, ricercatori, e persino un clochard che dietro i miseri stracci nasconde una sapienza insospettata. A un certo punto, però, un delitto scuote la città, ponendo Tancredi e gli altri faccia a faccia non più con la morte dipinta, ma con una morte reale e inspiegabile…».
C’è un motivo particolare per il quale, oltre al fatto che naturalmente il libro è un giallo, sullo sfondo del romanzo, seppur trattato con delicatezza e discrezione, vi è il tema della morte?
«Ho scritto questo libro mentre il tempo scorreva sempre più veloce verso la “fatidica” scadenza dei 40 anni, nel frattempo compiuti, peraltro nel contesto di una pandemia e di vari eventi che in qualche modo ci hanno sbattuto la morte in faccia e non solo quella remota, altrui, che non ci tocca. E, per quanto strano possa sembrare, in relazione alla morte mi sono trovato a interrogarmi sull’aldiquà più che sull’aldilà. Il fatto di essere giunto – statisticamente – a metà della vita, mi ha spinto a ripercorrere la vita vissuta e pensare a quella che, auspicabilmente, mi resta da vivere, quasi chiedendomi egoisticamente, se l’ho “spremuta” fino in fondo, giacché gli ultimi anni mi sono parsi, per varie ragioni, pandemiche e non, come una sorta di anticipata sepoltura.»
Scrivere ti è stato utile per un’introspezione personale? Il libro sembra attraversato da una profonda ricerca di senso.
«Certamente mi sono confrontato con me stesso, scolpendo i caratteri e i destini dei vari personaggi, e di conseguenza interrogandomi su come vedevo sia me sia gli altri. In qualche modo l’ho vissuto come un viaggio dantesco, per altri versi è stato un percorso catartico, avendo buttato sulla carta quelle che in fondo sono le mie stesse inquietudini. Credo ora di essere più consapevole delle inquietudini autentiche e di quelle inutilmente coltivate.»
L’autore parla spesso di “vagabondaggio”, di viaggi e di percorsi lontani dalla casa natale…
«In fondo, il vero dramma che traspare (oltre a quello cruento che costituisce l’azione) è quello di un uomo, il protagonista, che a un certo punto si sente mancare le radici, sballottolato dalle vicende non capisce più qual è il suo posto nel mondo, e finisce per ritrovare un senso (ribadisco: ri-trovare, come qualcosa di già dato) negli occhi di una donna. Paradossalmente, è proprio una vicenda tragica che gli permette di intravedere una rifioritura. Forse è questa una dinamica ricorrente nella vita stessa, chissà… Mi astengo sempre dall’offrire ricette, perché io stesso ho soprattutto domande e proprio per questo ho preferito raccontare una storia, con luci e ombre, piuttosto che formulare tesi.»
Hai preso spunto da qualche persona conosciuta per la puntuale descrizione psicologica dei personaggi?
«L’unico che ha davvero un volto reale è Lambertoni, l’anziano professore, guida e riferimento del protagonista, una sorta di Virgilio, che richiama un professore realmente esistito (a dire il vero anche due, riconosciuti dagli amici pisani che hanno letto il testo in anteprima). Gli altri attingono a tratti pescati qua e là, ma non a figure “ritratte” a tutto tondo. L’autore stesso si cela ora in questo ora in quel personaggio (benché ve ne sia uno che agli occhi più acuti non sfugge!).»
Pur essendo un giallo, emergono chiaramente i valori umani dell’autore. La vanità del successo contrapposta alla profondità di un personaggio dall’anima umile e poco appariscente è soltanto uno degli esempi che costellano il libro, portando al centro dell’attenzione uno stile profondo del vivere. Ci sono state delle figure significative nel tuo percorso di vita?
«Certo, se solo sapessi qual è il mio percorso di vita, che ultimamente mi appare più un labirinto. Figure significative? Ci sono state persone che mi hanno indicato una strada, mi hanno saputo dare buoni consigli (che non sempre ho seguito), o amici più “anziani” che hanno assunto tratti “paterni” (sono sempre stato estraneo alla cesura tra generazioni e da “giovane” amavo conversare e imparare dai più grandi), maestri di vita (e qualcuno anche di goliardia), vite belle e ben riuscite che mi fanno da segnaletica anche quando faccio deviazioni di testa mia, indicandomi quantomeno un mondo che posso considerare come “casa”, una sorta di patria dei legami, meglio ancora una Heimat fatta di volti più che di luoghi, laddove oggi in molti ci sentiamo apolidi e forestieri anche a due passi da casa.»
Emerge senza dubbio nel libro l’importanza conferita ai sentimenti affettivi e alle relazioni solide. Qual è l’impronta che alcune di queste ti ha lasciato e che ti piacerebbe trasmettere?
«“Una casa non è fatta solo di quattro mura”: questa frase si trova nel dialogo tra il protagonista e il clochard (e non diciamo altro per non “spoilerare”) dove si ritrovano entrambi accomunati dal senso di solitudine e dalla ricerca di un senso. A diverso titolo sono entrambi degli “spaesati”, che hanno perso o vanno in cerca di radici, cosa che personalmente ho sperimentato, insieme al sollievo di intravederle, almeno in parte, in amicizie durature, persone con cui ti senti “a casa”, a prescindere dal vedersi più o meno frequentemente. Sempre in tema di relazioni e affetti, nel libro si accenna a un “flirt” facilmente intuibile, e non è solo per alleggerire il dramma e bilanciare il lato “oscuro” del giallo. Vi è qualcosa di più, qualcosa che i due “ritrovano”, che potrei riassumere in breve con le parole di Battiato: “Mi piace ciò che pensi e che dici perché in te vedo le mie radici”»
Nonostante la palpabile nostalgia che fa da sfondo alle pagine del romanzo, sono parecchi i rimandi alla positività della vita.
«Pur essendoci di mezzo la Morte iconografica e quella concreta, cruenta, nel romanzo ci sono delle luci, anche incarnate da alcuni personaggi, dal saggio e sereno professor Lambertoni alla figura di Angelica, che va man mano incarnando – agli occhi dell’inquieto protagonista – quello che promette il suo stesso nome. Devo ammettere, all’insegna del paradosso di Nicolás Gómez Dávila, che «con buon umore e pessimismo non è possibile sbagliarsi né ingannarsi». Se questo vale per qualche mese o qualche anno, potrebbe valere per l’intera vita. E qui mi taccio, affinché il lettore non pensi che io sia diventato improvvisamente ottimista, lasciandolo con la domanda che l’autore si pone attraverso i vari personaggi: la morte (quella definitiva come le “piccole morti” che affrontiamo nel corso dell’esistenza) trionfa fino in fondo?».
Stefano Chiappalone (Avezzano – AQ, 1982) è laureato in Storia e Civiltà presso la Facoltà di Lettere di Pisa. Attualmente vive in Brianza, lavora come editor e traduttore freelance. Coltiva interessi artistici e dipinge nel tempo libero. È al suo primo romanzo e sta pensando al secondo.