Più che un ragionamento sul potere, "Il Signore degli Anelli" riflette una profonda meditazione sul tema della morte e dell'immortalità in relazione a Uomini ed Elfi, creati diversi per esplicita volontà di Eru/Ilúvatar. La morte data agli Uomini è un dono, che permette loro di essere liberi e di tendere oltre i confini del mondo, ma gli Uomini non lo capiscono e la interpretano come una maledizione forse dovuta a un loro peccato: cercano quindi di scappare da questa realtà, trovando dei rimedi e dei succedanei.
I Púkel sono statue di strani uomini del passato di cui non si conosce l'origine: i Rohirrim le ignorano, mentre Marry ne ricava sensazioni di pietà e malinconia. Più avanti sembrano prendere vita nei Drúedain di Ghân-buri-Ghân, e dimostrano che sarebbe meglio conservare la memoria del passato per evitare di cedere all'idea della gloria imperitura e invece ricordarsi che anche i piccoli possono cambiare le sorti del mondo.
Pur con delle differenze estetiche, la magia di J.K. Rowling e J.R.R. Tolkien non è poi cos' diversa: in entrambi i casi, nella saga di Harry Potter e nel "Signore degli Anelli", si configura infatti come enunciato performativo, una formula che viene pronunciata in una determinata situazione e si trasforma in un atto.
Nel 1966, Tolkien scrisse una lettera a un uomo di nome John Bush esprimendogli scarso apprezzamento nei confronti del romanzo "Dune" di Frank Hebert, ma senza spiegare il perché. Possiamo dunque provare a speculare sulle ragioni di ciò, mettendo a confronto il modo in cui i due autori intendono l'ambientazione, la scienza, la religione e il potere.
La seconda parte della trasposizione del capolavoro di Frank Herbert realizzata da Villeneuve è un film di grande fascino visivo ma caratterizzato da alcune scelte che tralasciano alcuni temi importanti del romanzo "Dune". Ecco cosa ne penso dopo averlo visto una prima volta.