Un lettore ci invia una recensione di "Guardare verso Occidente"

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- a cura di Emilio Biagini.

Ho avuto occasione di occuparmi di Tolkien per qualche tempo (articolo “Geografia fantastica e interpretazione psicologica con riferimento a ‘The Lord of the Rings’ di J. R. Tolkien”, Atti Accademia Ligure di Scienze e Lettere, XXXIII, 1976, pp. 3-23) e alcuni altri articoli nel numero speciale della rivista Ipotesi (Anno 5, 1-8, 1979) dedicato a “Il mondo fantastico di J. R. R. Tolkien”, ma gli studi di Paolo Nardi, laureato in Lettere all’Università Ca’ Foscari di Venezia, appaiono indubbiamente più comprensivi, abbracciando l’intera gamma dei diversi livelli di lettura del capolavoro tolkieniano e bilanciando in maniera criticamente equilibrata il sottofondo cristiano e quanto vi è di nobile nel paganesimo nordico, esercitando in pari tempo una magistrale analisi dei caratteri e dei comportamenti dei personaggi. L’analisi di Paolo Nardi dei capolavori tolkieniani (Alla scoperta della Terra di Mezzo, Leggiamo insieme “Lo Hobbit” e Leggiamo insieme “Il Signore degli Anelli”) è di grande profondità e precisione, appoggiandosi ad una cultura di eccezionale vastità, per cui tali saggi rappresentano indubbiamente un punto fermo fondamentale negli studi su Tolkien. Questo nuovo libro, nel quale Paolo Nardi è affiancato da Nicola Nannerini, laureato a Pisa in Filosofia della Comunicazione, si occupa di “tutte quelle questioni che oggi sembrano incontrare poco favore da parte dei creatori dei prodotti transmediali e poca accoglienza nel pubblico odierno: il tempo, la morte, l’immortalità, il destino e il libero arbitrio in relazione ai figli di Ilúvatar (elfi e uomini) che vivono ognuno di questi ambiti in maniera diversa. E questo senza abbracciare letture apologetiche o religiose che piegano e riducono il mondo secondario di Tolkien, cioè quella dell’indipendenza del Mondo Secondario, che deriva dal Mondo Primario ma non dipende da esso.” Il saggio non si limita ad esaminare Il Signore degli Anelli ma abbraccia l’intera gamma del legendarium tolkieniano, adottando un approccio critico che si concentra sulla ricchezza e la complessità intrinseca dei testi, distillando l’essenza delle opere con un metodo di analisi senza influenze ideologiche dal mondo esterno che ne possano limitare la portata. Infatti “Tolkien non era un filosofo o un teologo ma un narratore che cercava di dare profondità (e quindi maggiore credibilità) filosofica e teologica alla sua storia.” Alla serietà e profondità tolkieniana si contrappongono le fatue preoccupazioni di un’industria culturale alla frenetica ricerca della mitica “inclusività”: la serie Amazon Gli Anelli del Potere ha inventato elfi e hobbit di colore, e perfino la “reggente” al trono di Númenor, Tar-Míriel ha ricevuto una politicamente corretta abbronzatura. Tornando alle cose serie, Tolkien sembra vivere, all’interno del suo Mondo Secondario, “un costante dualismo tra il gioco letterario il gioco extra-letterario: il gioco letterario non impedisce un ragionamento di tipo teologico e, allo stesso tempo, il ragionamento teologico non esclude il gioco letterario. Di più: oltre il diletto speculativo autoriale ed extra-letterario, egli pone il frutto di questa sua speculazione a uso e consumo di quei protagonisti che considera deputati a farla. Ciò è ulteriormente evidenziato dal fatto che, ogniqualvolta affronti tali argomenti, Tolkien si ponga come autore-personaggio che scrive dall’interno del suo mondo e per il suo mondo”. In Tolkien ci sono spesso più varianti, più voci raccolte e riportate all’interno della narrazione, ma tutte valide e coerenti col Mondo Secondario di riferimento. Il legendarium tolkieniano è sempre il risultato della raccolta e trasmissione di leggende che spesso si ibridano tra loro. Non esiste una verità assoluta, ma sempre parziale e mediata. Secondo la visione di Tolkien, libero arbitrio e destino sono intrecciati, ciascuno influenzando e formando l’altro. La possibile soluzione di questa antinomia è la morte, il dono principale degli uomini che consente loro di andare al di là della Musica (il canto della Creazione) destinandoli ad altri compiti. Come dice Aragorn in punto di morte alla sua sposa Arwen: “Dobbiamo lasciarci con tristezza, ma non con disperazione. Guarda! Noi non siamo eternamente confinati entro i cerchi del mondo e, al di là, c’è più che il ricordo. Addio!” Grazie all’esercizio di una libertà ulteriore (in ogni senso), le scelte totalmente libere e la realizzazione della volontà divina giungono a coincidere. L’opera tolkieniana non contiene esplicitamente elementi soprannaturali ma è in armonia con essi e proprio per questo riesce tanto più persuasiva. Sebbene Tolkien veda il passato sempre più grande e glorioso del presente, con un costante senso di perdita rispetto ai Giorni Antichi, ci mette pure in guardia dalla nostalgia di una perduta età dell’oro. È impossibile far rivivere il passato perché il mondo va avanti: non possiamo pensare come gli elfi di bloccare il divenire storico, oppure come gli uomini cercare di ottenere un’immortalità che non ci riguarda. Ma la memoria va preservata per ricordarsi come combattere il male. Infatti il male esisterà comunque anche dopo la scomparsa di Sauron; per questo bisogna sempre tener alta la guardia: a noi spetta solo combatterlo oggi, nella forma che ha preso, per garantire la salvezza a chi verrà dopo di noi. Il problema ambientale è affrontato da Tolkien in modo complesso e composito. Anche tra i “buoni” ci sono diversi tipi di approccio, nessuno dei quali risolutivo. Un modello scontato potrebbe essere quello degli elfi, le creature che più di tutte vivono un rapporto simbiotico con la natura e che sono interessate principalmente alla bellezza del mondo creato, ma non mancano lati negativi nella loro resistenza al cambiamento: la loro arte è “antiquaria” e si sforzano soprattutto di “imbalsamare”. Il loro tentativo di fermare il tempo “li fa diventare malinconici, patologicamente nostalgici, ossessivi e gelosi delle proprie creazioni (...) Per di più, gli elfi se ne stanno andando, e per questo motivo sono molto algidi nei confronti delle problematiche della Terra di Mezzo, alla quale in fondo non sentono di appartenere.” Secondo gli autori, mentre Gandalf è l’incarnazione di qualcosa di spirituale, Bombadil è la personificazione di qualcosa di fisico: rappresenta l’amore per una conoscenza altruistica del mondo creato e della sua storia, indipendente da qualsiasi potere o vantaggio che tale conoscenza potrebbe apportare, personifica la scienza naturale nella sua forma più pura come conoscenza dell’essere e della storia di quel mondo, ben distinta dalla tecnologia e dalla scienza applicata, e infatti non fa alcun tentativo di coltivare la Vecchia Foresta o di trasformarla da selvaggia a mansueta. Altri personaggi sembrano far propria la visione di Tom Bombadil: Barbalbero, il miglior portavoce della storia delle foreste della Terra di Mezzo la cui prospettiva illustra specificamente il valore e l’importanza della natura incontaminata: se gli elfi conservano, agendo sulla natura in base a un loro disegno, gli Ent preservano. La differenza tra conservazione e preservazione ritorna anche nella contrapposizione tra gli stessi Ent e le loro controparti femminili, le Entesse che si dedicavano all’orticoltura e all’agricoltura, come gli hobbit. Qui è un’altra questione irrisolta: le Entesse si sono perse e ciò impedisce la preservazione della specie. Gli Ent sono condannati: finiranno per addormentarsi e radicarsi al terreno, diventando comuni alberi. Anche qui non c’è ritorno, il discorso ambientalista nell’opera di Tolkien non può terminare con un ritorno alla natura sovrana. Sembrerebbe che gli Ent avessero ragione, ma senza le Entesse non sarebbero esistiti l’agricoltura e il giardinaggio, e neppure avremmo gli hobbit. Questi infatti sono agricoltori, quindi modificano la natura per le loro esigenze; vivono in uno spazio antropizzato che ha un confine fisico, l’Alto Strame, un’altissima siepe oltre la quale si trova la Vecchia Foresta, lo spazio della natura incontaminata: un confine eretto dopo una guerra tra gli hobbit e la stessa foresta, ma la situazione è tutt’altro che pacificata, infatti il Vecchio Uomo Salice tenta di uccidere gli hobbit proprio per vendicarsi del male che essi hanno fatto agli alberi. Fra i diversi modi di intendere l’ambiente, Tolkien non ne indica alcuno come giusto, si limita ad esporli. Occuparsi del proprio giardino in maniera libera dal possesso e dallo sfruttamento, prendersi cura di quel che cresce e pensare in un’ottica altruistica: questo è il grande messaggio di Tolkien legato alla natura. Se in Tolkien non c’è una visione univoca dell’ambiente, questo è vero anche nel caso degli Istari, i maghi. Essi sono Maiar, creature “angeliche” di tipo minore mandate dai Valar sulla Terra di Mezzo con la specifica missione di ispirare i popoli liberi a resistere all’ascesa malvagia di Sauron. Nel realizzare questo obiettivo, è loro “fatto divieto di rivelarsi in forme di maestà o di cercare di governare la volontà di Uomini o Elfi facendo sfoggio di potere; presentandosi invece in aspetto debole e dimesso, dovevano consigliare Uomini ed Elfi al bene”. Anche se ne vengono inviati cinque, solo tre svolgono ruoli degni di nota (dei due Maghi Blu si sa pochissimo): Radagast, Saruman e Gandalf. Radagast trascura il mandato perché si innamora del mondo naturale e solo di quello si occupa. Saruman fallisce perché si innamora del potere e cerca di imitare Sauron, diventando a sua volta una minaccia per i popoli liberi. Solo Gandalf rimane fedele alla sua missione, e contribuisce in modo decisivo alla vittoria su Sauron. In conclusione, questo saggio di Paolo Nardi e Nicola Nannerini, corredato pure da una ricca bibliografia, si impone per obiettività, ampiezza di analisi e profondità filosofica e non può mancare nella biblioteca di chiunque sia interessato ad una lettura non superficiale dell’opera tolkieniana.


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