“Ciliegi in fiore”, in un libro la storia dell’Opus Dei in Giappone

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Pubblicato su opusdei.org, 28 gennaio 2021.

 

In occasione del cinquantesimo anniversario dell’inizio del lavoro apostolico dell’Opus Dei in Giappone è stata pubblicata una raccolta di testimonianze di persone, cristiane e non, che dai loro diversi punti di vista offrono un panorama del cristianesimo nella Terra del Sol Levante. “Ciliegi in fiore” è edito da Fede&Cultura ed è acquistabile sul loro sito.

A metà del 1957 il beato Álvaro del Portillo, che allora era segretario generale dell’Opus Dei, ebbe un incontro a Roma con il vescovo di Osaka, monsignor Pablo Yoshigoro Taguchi, durante il quale il prelato giapponese chiese al beato Álvaro di far iniziare il lavoro apostolico dell’Opus Dei in Giappone.

Questa idea piacque molto a san Josemaría, che aveva maturato più volte il desiderio di portare il lavoro dell’Opera in quella terra. Fu così che nel 1958 cominciarono una serie di viaggi di persone dell’Opus Dei verso il Giappone dai quali nacquero anche le prime iniziative in terra giapponese.

La storia del cristianesimo in Giappone è stata travagliata e per molti versi unica. L’autore del libro, José Miguel Cejas, la ripercorre in maniera sintetica nell’introduzione di “Ciliegi in fiore”, che dedica anche al racconto dei primi tempi dell’Opus Dei in Giappone. Nella prima parte l’autore riporta alcune brevi memorie di martiri cristiani risalenti alla fine del 1500. Nella seconda, invece, sono raccolte le testimonianze di giornalisti, musicisti, atleti, educatori, persone dai profili più diversi, cristiani e non cristiani e per buona parte giapponesi.

Tra queste troviamo anche quella di José Luis Múzquiz, uno dei primissimi membri dell’Opus Dei a essere ordinato sacerdote e per il quale è in corso la causa di beatificazione, di altre persone dell’Opus Dei che hanno compiuto viaggi in Giappone per iniziarvi il lavoro apostolico, ma anche di una cooperatrice buddista, uno scultore giapponese che ha contribuito con il suo lavoro alla Sagrada Familia di Barcellona e un poeta di haiku, componimenti poetici tipici giapponesi. L’Opus Dei è presente attualmente in 67 paesi distribuiti su tutti e cinque i continenti.

Offriamo di seguito un estratto del libro, tratta dalla testimonianza di don Fernando Acaso:

“Qualche settimana dopo il nostro arrivo a Osaka conoscemmo il prof. Kunisawa, Preside della facoltà di spagnolo dell’Università Nazionale di Osaka di Studi Stranieri. Era un fervente protestante e ci propose di dare delle lezioni settimanali sul Vangelo – naturalmente fuori programma – nella sua università. “Ma come facciamo? Non sappiamo il giapponese!” “Non importa. Divideremo la classe in due gruppi: quelli che parlano castigliano e quelli che parlano inglese”. La proposta ci entusiasmò: era la prima occasione per parlare di Dio a giovani del paese. E con mia grande meraviglia, pochi giorni dopo, sono tornato a dare lezione a una ventina di alunni senza l’ostacolo della lingua, dato che i miei alunni se la cavavano relativamente bene chi con il castigliano chi con l’inglese.

Quando si fece giorno uscii dalla casa per lavarmi a un pozzo. Fu un’esperienza tanto breve quanto intensa, che mi servì per conoscere la vita tradizionale giapponese e la loro lotta secolare contro le difficoltà materiali. Nel frattempo il Padre ci incoraggiava da Roma: “Sono molto contento di voi – ci diceva in una lettera di maggio – e ho molta voglia che vengano lì, molto presto, altri figli miei e che il Signore susciti vocazioni giapponesi”. Poco dopo ci giunse una lettera di José Antonio Armisén, un sacerdote spagnolo della Navarra che da tre anni esercitava il suo ministero negli Stati Uniti.Feci amicizia con loro e, grazie a Dio, ebbi la gioia di assistere qualche anno dopo alla cerimonia di Battesimo di cinque di loro. Uno di quegli studenti, Hisamoto, mi invitò a passare un weekend a casa dei suoi genitori. Era gente di campagna e viveva in un paese vicino, in una casa di legno che aveva almeno cent’anni. Cenammo seduti intorno al irori (il focolare) che era fissato al suolo. Dal soffitto pendeva il jizaigake, un lungo gancio metallico a cui era agganciata la pentola dalla quale ognuno si serviva. Erano molto affettuosi e dopo il pasto cominciammo a tavola una tertulia che si prolungò fino a notte inoltrata. In giapponese, la parola spagnola tertulia si pronuncia danran e si scrive con due kanji: “allegria” e “intorno al focolare”, cioè riunirsi allegramente attorno al focolare.
Ci diceva che gli avevano chiesto da parte del Padre se era disposto a venire in Giappone: “Ma prima di rispondere – ci diceva – avrei piacere che mi diceste se in Giappone si coltivano ‘cipolline” come quelle di Navarra, voi sapete quanto mi piacciono”. Ci mettemmo a ridere: era uno dei suoi scherzi. Intanto stava già facendo le pratiche per il visto e dopo poche settimane, il 29 luglio 1959, nel giorno più caldo dell’anno, arrivò all’aeroporto di Tokyo. Come me, Antonio non era persona di molte parole. Non aveva bisogno di un ofuro ma di una doccia fredda, perché la città si era trasformata in una immensa sauna”.


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