Pubblicato su Corrispondenza Romana, 8 novembre 2013.
- A cura di Roberto de Mattei
Sono passati cinquant’anni da quando si aprì il Concilio Vaticano II, in un clima ottimistico e tranquillizzante. L’umanità sembrava avviata verso orizzonti di prosperità e di pace e la Chiesa doveva seguirla su questo cammino. Il discorso programmatico con cui, l’11 ottobre 1962, Giovanni XXIII inaugurò il Concilio, poneva alla Chiesa l’obbiettivo dell’”aggiornamento” e dell’apertura al mondo.
Il Papa stigmatizzava i «profeti di sventura», tra i quali comprendeva forse i tre veggenti di Fatima, depositari di un messaggio ammonitore per l’umanità, che papa Roncalli, malgrado le indicazioni della Madonna, non volle rivelare. Ci si aspettava una «nuova Pentecoste» per la Chiesa, una primavera di fede e di speranza. Invece venne l’inverno e la crisi. Paolo VI, che nel 1963 successe a Giovanni XXIII e ne portò a compimento l’opera, fin dal 1968 prese atto dei nuovi problemi, con parole accorate.
La crisi però fu interpretata come una mancata realizzazione del Concilio e si andò avanti con le riforme, senza rendersi conto che questo acceleramento aggravava i problemi e non li risolveva. Passato mezzo secolo, è doveroso interrogarsi sui frutti del Vaticano II e sulla via per ritornare ad essere autenticamente cattolici. Ci aiutano a farlo i libri, appena pubblicati, di due figure di spicco del cattolicesimo tradizionale: la storica Cristina Siccardi con L’inverno della Chiesa dopo il Concilio Vaticano II. I mutamenti e le cause (Sugarco, Milano 2013, pp. 298, euro 23) e Paolo Pasqualucci, professore emerito dell’Università di Perugia, con Cattolici in alto i cuori! Battiamoci senza paura per la rinascita della Chiesa (Fede e Cultura, Verona 2013, pp. 216, euro 16).
Cristina Siccardi descrive, in un’efficace sintesi, la preparazione e lo svolgimento del Concilio Vaticano II, ma soprattutto ne espone le drammatiche conseguenze. Particolarmente felici sono le pagine riservate al mutamento delle figure tradizionali del vescovo, del sacerdote e del monaco. Per comprendere la natura della svolta, basta l’esemplificazione storica. Carlo Borromeo e Carlo Maria Martini, ad esempio, che hanno governato la diocesi di Milano a distanza di cinque secoli sono «due vescovi della stessa Chiesa, ma che, nei fatti, sembrano appartenere a due religioni diverse» (p. 138); così come a due chiese sembrano appartenere il santo Curato d’Ars, Giovanni Maria Vianney, e don Andrea Gallo il prototipo del “prete della strada” progressista, osannato dai mass media, e blandito ed onorato dalle stesse autorità ecclesiastiche.
Il giorno del suo funerale la chiesa del Carmine di Genova fu occupata e sulla bara di don Gallo vennero posti la bandiera rossa, il sigaro, la copia della Costituzione della Repubblica italiana: «Non c’erano né la Croce di Cristo, né i segni sacerdotali» (p. 157). La scandalosa funzione funebre ebbe il suo punto culminante quando Vladimiro Guadagno, in arte “Luxuria”, travestito da donna, ricevette la comunione dalle mani del cardinale Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana.
Per quanto riguarda i monaci, la Siccardi contrappone la figura di don Divo Barsotti uno degli ultimi maestri di vita spirituale in Italia, a quella dello pseudo-religioso Enzo Bianchi, «il Norberto Bobbio della cultura religiosa italiana» (p. 186). La Comunità di Bose di Bianchi, dove trovano spazio in una connivenza senza precedenti realtà protestanti, ortodosse e di altre religioni, applica alla lettera il § 3 del decreto conciliare Unitatis redintegratio, in cui si teorizza il rispetto dialettico dell’errore.
La verità diviene soggettiva e la vita spirituale, sganciata dalla metafisica, è ridotta ad un’esperienza puramente umana. Don Barsotti, da parte sua, dopo aver approvato il Concilio, si ritrae inorridito di fronte alle sue conseguenze e scrive dei vescovi postconciliari: «essi certo rimangono i “doctores fidei”, ma proprio questo è il loro peccato: non hanno voluto definire la verità, non hanno voluto condannare l’errore e hanno preteso di ‘rinnovare’la Chiesa quasi che il ‘loro’ Concilio potesse essere il nuovo fondamento di tutto» (p. 179). Scrive ancora Cristina Siccardi: «Il Concilio Vaticano II, dal quale è iniziato l’inverno della Chiesa ha dato retta al soggetto uomo e, in particolare, al soggetto uomo moderno con tutte le sue parziali verità, i suoi pretesi diritti sorti dalle filosofie derivanti dall’illuminismo, ed oggi, che viviamo nell’epoca postmoderna, ci ritroviamo a prendere, come figura simbolica della grande confusione che impera, l’Urlo di Munch, realizzato nel 1893».
Queste considerazioni possono servire di introduzione all’altro volume, di Paolo Pasqualucci, da noi segnalato. La Chiesa dal Concilio in poi si è secolarizzata, vale a dire si è adeguata al “secolo”, ai valori di quel mondo che essa, per divino mandato del suo Fondatore, ha invece il dovere di convertire a Cristo. Con grande penetrazione Pasqualucci analizza le cause della secolarizzazione della Chiesa, rinvenendone le radici nella rinuncia, da parte del Concilio Vaticano II, di definire la verità e di condannare gli errori.
Tutti gli equivoci derivano da questo peccato di origine; una proposta di “collegialità” ambigua e contraddittoria, non coerente con il Primato di Pietro; un altrettanto equivoco concetto di “popolo di Dio”, che ricomprende ed unifica l’umanità, senza convertirla; una falsa idea della Messa e del sacerdozio. La pastoralità del Concilio si è fatta, in tal modo, dottrina.
L’orizzonte appare tenebroso, ma nella storia della Chiesa nulla è mai realmente nuovo. Pasqualucci, stabilisce un interessante parallelo tra la situazione attuale e quella della fine del Quattrocento, quando Papi e vescovi erano immersi nella mondanità e nel relativismo. Il rinvio continuo della necessaria riforma provocò allora il castigo divino che si abbatté in maniera duplice sulla Chiesa del tempo: sul piano spirituale con la Rivoluzione protestante del 1517; sul piano temporale con le Guerre d’Italia (1494-1553) che ebbero il loro momento culminante nel terribile Sacco di Roma del 1527. Che cosa accadrà della Chiesa visibile odierna, dal Papa a tutti noi – si chiede Pasqualucci – se si continuerà a procedere sulla linea di uno sciagurato “spirito del Concilio”?
Sia il libro di Cristina Siccardi che quello di Paolo Pasqualucci si chiudono però con parole si soprannaturale speranza. La storia della Chiesa, scrive la storica torinese, è costellata di battaglie, di affronti, di sacrifici fisici o morali, di diatribe e discussioni, di lotte più o meno forti, più o meno dolorose…ma sempre la Verità emerge e vince (p. 272).
Occorre però reagire, rifiutando quegli insegnamenti del Concilio incoerenti con la Tradizione della Chiesa (per esempio sul concetto di ecumenismo, di collegialità, di libertà religiosa,) che sono la causa del disfacimento attuale. Essi, scrive Pasqualucci, non vanno rifiutati perché semplicemente pastorali, ma nel merito, per il loro contenuto, che rende impossibile conciliarli con la dottrina dei Concili precedenti. Ma il semplice fedele che ne senta la capacità è autorizzato o no a confrontare le “novità” del Vaticano II con l’insegnamento tradizionale della Chiesa? Pasqualucci, che propone un articolato piano di letture per rafforzare la fede, risponde con chiarezza.
Negare ai fedeli il diritto di confrontare la nuova pastorale del Vaticano II con l’insegnamento perenne della Chiesa è intrinsecamente contraddittorio, poiché implica attribuire al Vaticano II un carattere dogmatico negato dal Concilio stesso. «Fatevi coraggio, difensori del Concilio, affrontate nel modo giusto la grande controversia per amore della verità insegnata da Nostro Signore e dalla Santa Chiesa! Liberatevi dall’assurda paura di cadere nel sedevacantismo o di mancare di rispetto al Papa e indirizzate nel modo giusto lo zelo per la fede che indubbiamente vi ispira!» (p. 116).