Intervento di don Marco Begato durante il Festival di Fede & Cultura 2022.
- a cura di don Marco Begato
Il tema della giornata odierna è “Essere cristiani nel tempo delle emergenze - Custodire, difendere, tramandare la fede”.
Il mio contributo andrà a rileggere alcuni emblematici interventi del Magistero sul tema della fede, limitandoci solo agli ultimi pontificati. L’obiettivo non è una ricostruzione sistematica della visione teologica espressa nel Magistero recente; non è nemmeno una critica eventuale delle posizioni ivi espresse; bensì si tratta di un approccio ben più modesto, un riportare a memoria alcune delle tappe più significative, anche in termini pratici e pastorali, relative al dono della fede e al compito che come cristiani abbiamo rispetto ad esso.
Farò riferimento fondamentalmente a tre documenti pontifici, ma aprirò lo sguardo della riflessione appoggiandomi anche all’interessante scritto del prof. George Weigel, Il prossimo Papa (F&C 2021).
La questione della fede, in alcuni documenti recenti, è stata di fatto collegata alla sfida dell’ermeneutica e dell’applicazione del Concilio Vaticano II. Per inciso, ermeneutica e applicazione sono termini chiave nella filosofia del linguaggio, ampiamente esplorati da autori di interesse internazionale – su tutti Hans Georg Gadamer -, a dire che la sfida qui citata non è semplice, né scontata. Ma senza indugiare oltre sul tema, veniamo al primo documento.
Fidei Depositum è la Lettera Apostolica scritta da Giovanni Paolo II in apertura e come accompagnamento della nuova edizione del Catechismo della Chiesa Cattolica, 1992. La lettera porta la data dell’11 ottobre e cade quindi precisamente nel trentennale dell’inizio del Concilio, 11 ottobre 1962.
L’incipit del testo sigilla ex abrupto il momento di incontro tra Chiesa e Fede: “Custodire il deposito della fede è la missione che il Signore ha affidato alla sua Chiesa e che essa compie in ogni tempo”. Ritengo che tale dichiarazione rappresenti un criterio interpretativo fondamentale, alla cui luce vagliare ogni problematica antica o recente, relativa ai contenuti e agli atti di fede cristiani. Essi sono dati nella forma della custodia, non dell’esplicitazione razionale o dell’evoluzione tematica; queste forme possono essere contemplate, solo se non travalicano quella.
Anche lo sforzo conciliare procede in tale direzione generale, custodire la fede, con l’intento specifico di darne una presentazione capace di mettere a fuoco la bellezza della dottrina. Tale vision chiedeva un approccio in cui venissero metodologicamente, e non strutturalmente, messe da parte le condanne degli errori.
Al Concilio il Papa Giovanni XXIII aveva assegnato come compito principale di meglio custodire e presentare il prezioso deposito della dottrina cristiana, per renderlo più accessibile ai fedeli di Cristo e a tutti gli uomini di buona volontà. Pertanto il Concilio non doveva per prima cosa condannare gli errori dell'epoca, ma innanzitutto impegnarsi a mostrare serenamente la forza e la bellezza della dottrina della fede.
L’approfondimento di tale argomento è stato autorevolmente condotto nell’Assemble a straordinaria del Sinodo dei Vescovi del 1985, di essa oggi ci interessa un desiderio lì espresso1 e cioè “che venga composto
un catechismo o compendio di tutta la dottrina cattolica per quanto riguarda sia la fede che la morale, perché sia quasi un punto di riferimento per i catechismi o compendi che vengono preparati nelle diverse regioni”, un testo programmaticamente composto con l’idea di contenere “cose nuove e cose antiche, poiché la fede è sempre la stessa e insieme è sorgente di luci sempre nuove”. Un testo redatto con il compito di “sostenere e confermare la fede di tutti i discepoli del Signore Gesù” e pensato con la funzione di essere “riferimento sicuro e autentico per l'insegnamento della dottrina cattolica”.
Questi gli intenti dichiarati. E nuovamente ritengo di poter affermare che è alla luce di tali asserti che andranno di volta in volta verificati i contenuti del Catechismo stesso, ed è nel loro solco che andrà sempre compresa la missione della Chiesa come custode del Deposito.
La data dell’11 ottobre torna vent’anni dopo, nel cinquantenario dell’esperienza conciliare, quando Benedetto XVI produce la lettera apostolica Porta fidei e così inaugura l’Anno della Fede.
Notiamo almeno due elementi di continuità col documento precedente. Uno di tipo strumentale: si ribadisce l’importanza del Catechismo e il compito di ricorrervi per avere una conferma nella retta fede, scongiurandone le deformazioni e manipolazioni. Uno di tipo carismatico, nuovamente sottolineando l’intenzione ecclesiale di diffondere il deposito della fede, però con un’attenzione a mostrarne la bellezza:
Fin dall’inizio del mio ministero come Successore di Pietro ho ricordato l’esigenza di riscoprire il cammino della fede per mettere in luce con sempre maggiore evidenza la gioia ed il rinnovato entusiasmo dell’incontro con Cristo2.
Importante l’inciso pontificio, che non manca di trafiggere la crisi della fede all’interno della stessa vita cristiana:
Capita ormai non di rado che i cristiani si diano maggior preoccupazione per le conseguenze sociali, culturali e politiche del loro impegno, continuando a pensare alla fede come un presupposto ovvio del vivere comune. In effetti, questo presupposto non solo non è più tale, ma spesso viene perfino negato.
Se dunque il Concilio affrontava l’orizzonte di un mondo in cui la fede era solida, ma si intendeva mostrarne l’intrinseca bellezza; l’alba del nuovo millennio fa i conti con una realtà, anche ecclesiale, in cui la fede è stata “non di rado” barattata per un piatto di lenticchie in salsa sociale e politica. Da qui il richiamo papale:
“Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?” (Gv 6,28). Conosciamo la risposta di Gesù: “Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato” (Gv 6,29). Credere in Gesù Cristo, dunque, è la via per poter giungere in modo definitivo alla salvezza.
Urge un ritorno alla fede, unica via per poter giungere in modo definitivo alla salvezza, nonché chiave che apre alla gioia e al rinnovato entusiasmo dell’incontro con Cristo. Nuovamente dunque ci è dato un criterio e una via sicura: fuori da un impegno di fede sono compromesse la salvezza, la gioia e l’entusiasmo. I cristiani dunque vacillerebbero nella loro missione.
Il cammino della Chiesa ci porta a un passo successivo, che conferma l’intuizione di fondo degli ultimi decenni: l’esperienza di fede come occasione di particolare e vibrante arricchimento umano. La fede
dunque, presentata con le cifre della bellezza, della gioia e dell’entusiasmo, è infine proposta come luce nell’Enciclica Lumen fidei firmata da Francesco il 29 giugno 20133.
Il tema della luce peraltro, oltre a confermare il guadagno antropologico e personale dell’esperienza credente, possiede un ulteriore livello semantico, che viene a porsi come soluzione sicura alla profonda decadenza dell’umanità contemporanea. Il tema della luce si afferma cioè in primo luogo come svalutazione della fallimentare esperienza illuminista, della quale pur si riconoscono le ragioni:
Parlando di questa luce della fede, possiamo sentire l’obiezione di tanti nostri contemporanei. Nell’epoca moderna si è pensato che una tale luce potesse bastare per le società antiche, ma non servisse per i nuovi tempi, per l’uomo diventato adulto, fiero della sua ragione, desideroso di esplorare in modo nuovo il futuro (n. 2).
Ma poi, nell’evidenza dell’epilogo oscuro e disumano della stessa, si ripropone l’unica alternativa efficace, l’accesso alla vera luce che definisce il senso dell’umano e che lo sorregge fin nelle sue legittime aspirazioni mondane:
È urgente perciò recuperare il carattere di luce proprio della fede, perché quando la sua fiamma si spegne anche tutte le altre luci finiscono per perdere il loro vigore. La luce della fede possiede, infatti, un carattere singolare, essendo capace di illuminare tutta l’esistenza dell’uomo (n. 4).
Ora muoviamo verso la seconda parte del mio intervento, lo faremo appoggiandoci agli ultimi numeri di Lumen fidei e quindi chiedendo saggio consiglio al prof. Weigel.
Se la fede è bellezza, gioia e luce; e se i cristiani stessi stanno in parte disattendendo al comando divino di credere “in colui che egli ha mandato” (Gv 6,29), quali prospettive possiamo darci?
L’Enciclica insegna:
Come servizio all’unità della fede e alla sua trasmissione integra, il Signore ha dato alla Chiesa il dono della successione apostolica. Per suo tramite, risulta garantita la continuità della memoria della Chiesa ed è possibile attingere con certezza alla fonte pura da cui la fede sorge. La garanzia della connessione con l’origine è data dunque da persone vive, e ciò corrisponde alla fede viva che la Chiesa trasmette. Essa poggia sulla fedeltà dei testimoni che sono stati scelti dal Signore per tale compito (n. 49).
Dal che trarrei due indicazioni.
La prima è che la fonte pura della fede non sta puntualmente nell’espressione della Chiesa contemporanea, mai. Piuttosto la Chiesa vi può attingere attraverso la continuità che la riporta alle radici della successione apostolica. Alla Chiesa contemporanea dunque dobbiamo chiedere se essa è trasparenza di tale continuità e coerenza di tale successione, capaci di portarci alla fonte. Pensare alla Chiesa contemporanea come fonte essa stessa, fuori dalla dinamica qui descritta, non sembra conveniente.
In secondo luogo, alla Chiesa contemporanea dobbiamo chiedere se essa è garanzia di connessione con l’origine; se sa trasmettere la fede viva; se i testimoni scelti dal Signore sono fedeli al loro compito. La risposta non è scontata o meglio non è uniforme. Il testo biblico ce ne dà mostra: il primo collegio apostolico presenta delle falle nella testimonianza fontale; in un caso la falla è quantitativa e quindi intacca
il collegio stesso, si tratta di Giuda, ma un traditore può essere sostituito e ciò avverrà con Mattia; in altri casi la falla è qualitativa e abbassa il tono di fedeltà del collegio, si tratta della fuga degli apostoli e in particolare del rinnegamento di Pietro, ma il cedimento può essere riparato chiedendo un atto di fede nel Risorto (“non essere incredulo ma credente”; “mi ami tu”); il che non esclude peraltro la possibilità di una persistente fedeltà di fondo, come nel caso di Giovanni confermato fin sotto la croce a beneficio di tutta la Chiesa (“Ecco tua Madre”). Il tutto nella cornice della promessa divina: “non praevalebunt!”.
Quindi possiamo discutere di una defezione più o meno grave; qualitativa o quantitativa; breve o durevole; ma non possiamo dubitare del non praevalebunt, e anzi abbiamo nell’icona giovannea l’anticipazione di come risolvono le crisi ecclesiali. La fedeltà di alcuni fin sotto la Croce è principio di risanamento, tramite l’intercessione mariana e fino alla confessione di fede nel Risorto, che ridona la bellezza, la gioia, l’entusiasmo e la luce della fede, forte fino al martirio fino ai confini del mondo e fino al ritorno di Cristo nella gloria.
Ogni epoca di storia ecclesiastica può essere riletta in tale schema, ed esso offre un buon criterio di valutazione della nostra, non per spirito di lamentela ma costantemente resi avvisi dal buon motto: Ecclesia semper reformanda.
***
Integriamo tali prospettive con le riflessioni maturate da George Weigel. Esse ci serviranno a dare concretezza al discorso sviluppato fin qui. E a riportarlo maggiormente vicino alle scelte della nostra vita personale e quotidiana.
La tesi di fondo sostenuta nel libro è esplicitata nella Nota introduttiva:
Il nuovo papa probabilmente negli anni del Concilio era un adolescente o un uomo giovanissimo, forse addirittura un bambino. In ogni caso non è stato plasmato dall’esperienza conciliare e dai successivi dibattiti sul suo significato e la sua ricezione, a differenza di Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco. Pertanto il nuovo papa giocherà un ruolo di transizione in modo diverso dai suoi immediati predecessori. Sembra, dunque, appropriato considerare ciò che la Chiesa ha imparato dalla sua stessa esperienza nei pontificati di questi tre papi conciliari – e indicare cosa il nuovo papa potrà assumere da questo insegnamento.
Questo approccio ci interessa. Se il tema della fede è stato rilanciato negli ultimi sessanta anni in profonda connessione col fenomeno conciliare, un Pontefice che recepisca in modo qualitativamente nuovo tale fenomeno – non essendovi appartenuto a differenza dei predecessori – sarà chiamato a rilanciare la fede stessa in modo qualitativamente rinnovato. A ciò aggiungiamo l’evidenza già denunciata, e a tutti palese, della profonda crisi in cui versa la fede oggidì almeno nelle zone di antica cristianizzazione.
Gli snodi storico-teorici individuati da Weigel sono tre, tutti fondati sulla Gaudet Mater Ecclesia di Giovanni XXIII:
- la pubblicazione della Evangelii Nuntiandi di Paolo VI;
- l’assemblea straordinaria del Sinodo dei vescovi del 1985, convocata da Giovanni Paolo II;
- il Giubileo del 2000 e la conseguente Novo millennio ineunte.
L’idea è che le chiese locali che hanno tradito l’indicazione cristocentrica ed evangelizzatrice – vero e proprio fil rouge dei quattro passaggi appena citati – sono quelle che vedono oggi il tracollo dottrinale, morale e vocazionale. Laddove invece tale indicazione è stata accolta, assistiamo a una conferma nella dottrina, nella morale e nella crescita vocazionale e missionaria. Altro lo lascio alla vostra lettura.
Quanto a noi, ancora pochi spunti.
Il metodo adoperato da Weigel non consiste in una critica né correttiva né polemica, né esplicita né implicita, dei Pontificati recenti, cui sostanzialmente non fa riferimento. Piuttosto l’autore individua un grappolo di temi, ne rileva occasioni e criticità e poi li offre come spunto di riflessione al prossimo Papa.
Il metodo è interessante e ci torna utile commentarlo.
Anzitutto supera quella venatura polemica che spesso piaga le riflessioni sul tema – e fa da contr’altare alla piaga uguale e contraria, l’adulazione acritica e servile. L’uso della polemica in particolare, lo dico da pastore, è sempre fonte di stress e quindi possibile ostacolo nel cammino spirituale personale, che dovrebbe sempre starci a cuore più di ogni forma di critica culturale e di qualsivoglia militanza ecclesiale.
In secondo luogo non entra nel merito della condotta dei singoli pontefici, né dei loro insegnamenti, spazio molto delicato in cui addentrarsi e che propriamente è affidato al ministero cardinalizio ed episcopale (non a quello presbiterale, né tantomeno a quello teologico). Avere un buon esempio di critica culturale ecclesiale, che avvicina anche questioni della Prima Sede, ma non arrischia toni censori all’indirizzo della stessa, mi pare un ottimo arricchimento.
Infine l’esercizio di offrire al prossimo Pontefice dei consigli dal basso per meglio guidare il cammino della Chiesa e confermarla nella fede, di fatto si può convertire facilmente in una lista di consigli da rivolgere a noi stessi e a qualsiasi categoria di credenti. Semplicemente, ciò che al prossimo Papa viene proposto come possibile linea di comando, risuona ipso facto alle nostre orecchie come una possibile linea di obbedienza.
Il tutto, certo, tenuto conto del fatto che quelli di Weigel sono consigli saggi ma fallibili, cui far riferimento con libertà e spirito critico.
Scegliamo due temi esemplificativi nel testo: fede; sacerdozio.
Circa la fede Weigel rileva
Una sorta di legge di ferro costruita intorno alle relazioni tra cristianesimo e modernità (e tarda modernità, postmodernità e forse ciò che verrà dopo la postmodernità): le comunità cristiane che hanno un chiaro senso dell’identità dottrinale e morale possono sopravvivere e persino fiorire sotto le sfide poste dalla cultura contemporanea; le comunità cristiane il cui senso dell’identità si indebolisce e i cui confini diventano permeabili appassiscono – e alcune di esse muoiono5.
Gli effetti di tale legge si individuano nella vita della Chiesa contemporanea.
C’è una stretta correlazione tra il crollo della fede e della pratica cattolica in Europa occidentale e il costante tentativo di creare proprio lì un “cattolicesimo light” – fatto di opinioni vaghe e confini comportamentali porosi – come metodo pastorale del XXI secolo. Questo fenomeno è evidentissimo nei Paesi europei di lingua
tedesca, ma non è limitato a questi. Il cattolicesimo light è un fallimento evangelico e pastorale in Europa occidentale come in Nord America, America Latina, Australia e Nuova Zelanda6.
Altrove, si raccolgono invece i frutti di un cattolicesimo “in pienezza”, il quale “si serve tanto del Vangelo quanto della dottrina”7, tipico di quelle “parti vive della Chiesa mondiale […] che offrono sia la misericordia sia la verità8.
Quanto ai sacerdoti Weigel suggerisce:
Il “reclutamento vocazionale” – proporre agli uomini di considerare il sacerdozio ordinato come una via esigente ma appagante per vivere il loro impegno cristiano – è più efficace quando le guide dei cattolici, incluso il papa, mostrano una visione eroica del sacerdozio e stimolano gli uomini a vivere la sfida del radicale sacrificio di sé. Pertanto il nuovo papa dovrà insistere perché la riforma dei seminari ecclesiastici – ben sviluppata in alcune parti del mondo ma iniziata a malapena in altre – deve inculcare nei futuri preti la consapevolezza della sacralità della vocazione sacerdotale. Tale consapevolezza inizia con la radicale conversione al Vangelo e si esprime, allora, in una speciale configurazione a Cristo Signore, vissuta nel paterno sacrificio di sé, non in un sistema di caste clericali9.
E tale lettura è funzionale a risanare la piaga del sacerdozio che, tra abusi di vario tipo (sessuali, finanziari, liturgici, amministrativi), prende il nome di clericalismo.
Richiamare tutto questo è essenziale nel combattere il male del clericalismo, che reca offesa al sacerdozio della Nuova Alleanza trasformandolo in una casta – una tentazione a cui sono soggetti sia i preti sia il popolo. Quando quella casta non causa deliberatamente comportamenti abusivi, sessuali o di altro tipo, essa può tuttavia facilitare l’abuso sessuale o di autorità da parte dei chierici10.
Se il riferimento al capitolo sulla fede era pressoché scontato, posto l’oggetto della nostra giornata di confronto, ho invece citato la questione sacerdotale, non lo nego, ispirato anche da numerose locuzioni private degli ultimi decenni e anni, nelle quali ritorna il richiamo a pregare e offrirsi per la rigenerazione dei sacerdoti, via preziosa di superamento della crisi ecclesiale.
Come detto più sopra, è apprezzabile il metodo del professor Weigel, e rimane stimolante al fine di svolgere un’analisi personale, volta per esempio – per stare alle citazioni riportate - a verificare il grado di pienezza della nostra fede e il tipo di sacerdozio cui ci riferiamo e per il quale ci prodighiamo.
***
In conclusione e come sintesi, mi piace citare un paragrafo dal libro Sentinelle in Piedi:
Per sua natura lo scopo si colloca nel futuro e implica una ragione che funziona alla luce del criterio dell’efficacia dei mezzi per raggiungere il fine preposto[…]. Il senso ha ovviamente a che fare con lo scopo ma no si identifica con esso. Il senso non è qualcosa che io posso darmi o che posso definire in anticipo. Il senso si
dà a partire dalla percezione di qualcosa che è un valore in sé, che è degno di rispetto, che è non negoziabile11.
Ne traggo la lezione conclusiva: rigenerarsi personalmente nella fede è il primo passo per ritrovare e custodire la propria libertà e il ‘senso’ della propria esistenza. Solo in seconda istanza potremo andare a individuare gli ‘scopi’ operativi, come fa nel suo libello Weigel. Agire sugli scopi, senza aver purificato il senso – sensus fidei, se mi è concessa l’appropriazione di parole – sarebbe sterile.
Il Magistero ci conferma e sprona in tale cammino; il buon senso dimostra il successo di quanti hanno e stanno camminando lungo tale iter (cfr. l’analisi di Weigel).
Sta a noi far nostra una simile istanza e divenire così luce del mondo, veicolo del lumen fidei, leva fondamentale e imprescindibile per qualsiasi futuro di ripresa, così che (anche) il prossimo Papa possa avere il pronto e fecondo sostegno del ‘prossimo’ popolo di Dio.